Storia delle mafie

Camorra

 

Breve storia della camorra in Campania

 

La Bella Società Riformata, si costituì ufficialmente nel 1820.

Vuole la tradizione di quell’anno, gli esponenti della camorra dei dodici quartieri di Napoli si riunissero nella chiesa di Santa Cateriana a Formiello e, nel corso di una solenne cerimonia, dessero un nuovo statuto e una moderna articolazione alla setta.

Il principio che il capintesta (specie di comandante supremo)  dovesse essere nativo del quartiere di Porta Capuana, fu mantenuto fermo: lo stesso  democraticamente eletto non poteva essere mai criticato, riceveva una volta la settimana i capintriti i quali lo informavano su tutto quello che era accaduto in città e gli versavano grosse quantità di denaro; la struttura prevedeva inoltre n.12 capintriti o capisocietà ognuno dei quali rappresentava un quartiere di Napoli, i contaiuoli una specie di segretari tesorieri e dei capiparanza una specie di sottogruppo.

La camorra aveva anche dei tribunali, articolati in Mamme e Gran Mamma, che ai traditori infliggevano pene terribili che andavano dal barbaro sfregio fino all’esecuzione capitale.

La Bella Società Riformata si divide in Società Maggiore e in una Società Minore. I primi riti di iniziazione, per entrare a far parte della Bella Società Riformata, peraltro, destinati a rimanere in vigore fino a dopo l’unificazione d’Italia, devono essere considerati imitazioni di quelli tenebrosi e terribili che caratterizzavano l’accesso alla Carboneria.

Al vertice fu nominato Pasquale Capuozzo, un ferracavalli di Porta Capuana, il quale fu eletto per ben tre volte, ma che venne ucciso dalla moglie nel 1824, ostetrica, la quale, credette di notare in un bimbo appena nato somiglianze col marito.

Le strade di Napoli presentavano, non solo nei quartieri popolari anche in quello del centro, nei primi decenni dell’Ottocento, uno spettacolo in disordine, di miseria, di baldoria e di sporcizia.

Le strade di Napoli erano disseminate di biscazzieri che invitavano i passanti a partecipare a ogni sorta di gioco d’azzardo.

Era proprio su queste biche che i camorristi, fedeli a secolari tradizioni, esercitavano il loro più redditizio controllo; essi pretendevano infatti il barattolo, ovvero una percentuale pari al venti per cento degli introiti. Da parte loro i biscazzieri trovavano naturale versare la tangente, i quali consegnavano ai camorristi in un determinato orario la tangente.

Particolarmente redditizie erano per la camorra esercitata sugli importatori e quella praticata sulle case di tolleranza.

Alle porte della città, sostavano gruppi di camorristi, spesso trattati dagli impiegati di dogana come dei “colleghi”; gli importatori versavano prima una quota dovuta per legge allo Stato, e poi quella dovuta per camorra, alla Bella Società Riformata.

In relazione alle case di tolleranza, i camorristi percepivano:

  • una tangente dal proprietario dell’immobile;
  • una seconda tangente dalla metresse;
  • una terza tangente dai vari ricottari, cioè dai singoli sfruttatori delle prostitute.

Di solito i camorristi, volendo evitare ogni rapporto con i ricottari, che avevano un gran dispregio e ai quali, era preclusa l’iscrizione alla setta, demandavano questo compito di esigere questo tipo di tassa ai picciotti.

La percentuale che i ricottari dovevano versare alla camorra, variava a secondo la donna da essi protetti fosse pollanca  vergine), o gallinella (non più illibata) o voccola (madre di figli).

In alcuni casi il camorrista poteva fare della prostituta la sua amante, ma a patto di sollevarla cavallerescamente da ogni forma di sfruttamento. Non era invece autorizzato a sposarla se non nel caso di un voto fatto a un qualche santo che l’avesse salvato da una malattia o da una sventura.

L’atteggiamento della cittadinanza nei confronti di questa organizzazione di malviventi era sempre di benevola sopportazione. Anzi un poco alla volta, i napoletani finirono per abituarsi alla camorra la ritenevano il minore dei mali possibili, e addirittura si dispiacevano se le forze dell’ordine davano attuazione a forme repressive nei loro confronti.

In tutte le sue manifestazioni, la camorra è stata sempre originata dal malgoverno.

Verso la metà dell’Ottocento, accanto alle sette proliferavano formazioni autonome di gruppi che presero il nome di “guappi di sciammeria”, che a differenza dei camorristi, erano spavaldi, maneschi, rissosi, coraggiosi, difensori dei deboli e assolutamente non parassitari, i quali esercitavano soprusi e prevaricazioni in zone lasciate libere dai camorristi dedicatisi, dal 1840, a taglieggiare anche chi fosse sospettato di nutrire idee liberali.

Ormai la camorra era assurta a vero e proprio fenomeno sociale, con infiltrati in ogni ambiente; neppure le autorità del Regno riuscirono a contenerla efficacemente.

Aveva allargato talmente il suo raggio d’azione che persino le sepolture e le messe in suffragio dei defunti erano soggette al pagamento di una tangente.

La malavita campana, ha sempre avuto un rapporto del tutto particolare con l’ambiente carcerario, in quanto, la camorra poteva altresì contare su disciplinatissime ramificazioni all’interno delle carceri e nei domicili coatti dove taglieggiavano gli altri detenuti.

Ogni detenuto che non apparteneva alla Bella Società Riformata, ne diventava vittima all’interno delle carceri, in quanto, al momento del suo arrivo gli veniva chiesto di pagare del denaro per l’acquisto dell’olio per illuminare l’immagine della Madonna. Questa specie di “tassa” aveva solo un carattere simbolico, in quanto il nuovo detenuto nel momento che pagava, accettava “le regole”, ovvero di lasciarsi sfruttare per tutto il tempo che sarebbe rimasto rinchiuso in carcere. Inoltre, un eventuale diniego, avrebbe comportato seri rischi per la sua incolumità. Dal pagamento di questa tassa, non venivano risparmiati neanche i detenuti più poveri. In questi casi, i camorristi fingevano di esaminare il caso, ma anche quando erano convinti della fondatezza delle sue ragioni, lo accoltellavano o infierivano crudelmente su di lui

Il fine principale della camorra era quello di prendere una tangente su qualsiasi attività, lecita o illecita, che si svolgesse nella città.

Con l’aumento della sua potenza (dovuta anche alla ferrea omertà che ne proteggeva gli affiliati), la Camorra assunse rapidamente il ruolo di “contropotere” semi-legale (e, nei quartieri popolari, ufficiale), amministrando una giustizia, come si è detto, non ufficiale, imponendo una parvenza di ordine (funzionale ai propri traffici) nel napoletano ed estendendo la propria influenza ai comuni dell’agro campano.

Per di più la polizia borbonica di Francesco II (che regnò nel 1859-60) ricorse alla camorra napoletana per domare le rivolte popolari determinate dai successi di Garibaldi; nel 1860 il ministro di polizia, l’avvocato Liborio Romano, diventò il vero arbitro della situazione. Pressochè odiato da tutti Liborio Romano, venerato dai camorristi, si rivolse a questi per costituire la Guardia Cittadina. La sera del 27 giugno, segretamente, convocò il celebre “caposocietà” Salvatore De Crescenzo per fargli assumere il comando della nuova polizia.

Al suo arrivo a Napoli, Garibaldi trovò i camorristi insediati negli uffici di pubblica sicurezza che si rivelarono integerrimi paladini della legge, permettendo così che il passaggio dei poteri dopo la partenza di Francesco II, avvenisse senza eccessivo disordine.

I camorristi-poliziotti furono licenziati da Silvio Spaventa, nominato Prefetto di Polizia del Regno d’Italia nel gennaio 1861, che sciolse il corpo delle Guardie Cittadine – nei cui ranghi primeggiavano i camorristi – sostituendolo con quello delle Guardie di Pubblica Sicurezza. Comunque, la volontà di estirpare la setta e contemporaneamente di ripristinare una situazione di legalità, rimase un’autentica utopia. Infatti, nel luglio del 1861, Spaventa si dimise: ormai “… nelle carceri, nell’esercito ed in tutti i luoghi pubblici è esercitata la camorra”.

La potenza criminale della camorra

 

Il 21 dicembre 1993, viene approvata dalla Commissione parlamentare antimafia della XIª legislatura, la relazione sul fenomeno camorristico in Campania, dove, per la prima volta, vengono fornite ampie e dettagliate ricostruzioni storiche accompagnate da severi giudizi politici. Nella relazione, inoltre, si rappresentano le connivenze e appoggi istituzionali, nonché i consensi socio-culturali, goduti per decenni dalle diverse organizzazioni malavitose campane vincenti.

Lo studioso Isaia Sales nella premessa al testo stampato il 7 febbraio 1993, ai lettori del quotidiano de “l’Unità” (la relazione approvata il 21 dicembre 1993 dalla Commissione parlamentare antimafia, venne successivamente pubblicata in un libro, dal titolo Rapporto sulla Camorra, allegato in supplemento, al quotidiano de “l’Unità” del 7 febbraio 1994), evidenzia:

[…] La relazione della Commissione parlamentare antimafia sulla Camorra è un documento storico. Per anni questo particolare fenomeno criminale è stato sottovalutato, trascurato. La prima Commissione antimafia non se ne occupò[*]. E non se ne sono occupati seriamente per anni i vertici della Magistratura napoletana, che ancora nel 1981, quando già la Camorra si era impossessata di molte attività economiche, quando già Cutolo era stato l’artefice della liberazione di Cirillo, e quando già per le strade si contavano a centinaia i morti ammazzati, ritenevano non estendibili alla Camorra le misure repressive antimafia […].

[*] La prima Commissione parlamentare antimafia è stata istituita con la Legge 20 dicembre 1962, n. 1720, anche se la questione di una lotta oltre che giudiziaria, anche politica e culturale della mafia, fu posta da alcuni parlamentari già nel 1948, immediatamente dopo la strage di Portella della Ginestra – eseguita dal Bandito Giuliano – (1 maggio 1947) e i successivi omicidi compiuti da Cosa Nostra nei confronti di sindacalisti agrari in Sicilia. Il 14 febbraio 1963, la prima Commissione venne costituita: era composta da Rossi come presidente, dai suoi principali sostenitori Parri, Berti, Gatto, Li Causi, ma anche da uno dei suoi avversari più decisi, Zotta, oltre ad altri parlamentari. Siffatta Commissione, non tenne alcuna seduta a causa dell’avvenuto scioglimento delle Camere (elezioni politiche dell’aprile 1963). Ma ormai la Commissione non poteva essere messa in discussione. Alla ripresa dell’attività legislativa la guida della Commissione parlamentare antimafia venne affidata al sen. Donato Pafundi. L’organismo parlamentare iniziò i suoi lavori sulla scia dell’indignazione generata dalla strage di Ciaculli avvenuta cinque giorni dopo la sua costituzione. Il 30 giugno 1963, a Ciaculli (PA), un gruppo di carabinieri venne attirato in un agguato da una telefonata anonima che segnalava un’auto abbandonata. Una volta aperta, l’auto scoppiò, causando la morte di sette rappresentanti dello Stato. Dopo la strage vennero inviati in Sicilia circa diecimila poliziotti e carabinieri, che rastrellarono l’isola, compiendo 1.200 arresti in dieci settimane. L’erronea considerazione che in tal modo la mafia avesse subito il colpo definitivo, fece calare la tensione e l’attenzione; a ciò si aggiungano, qualche anno dopo, le assoluzioni per insufficienza di prova, che permisero a Cosa Nostra di riorganizzarsi ed ritornare ad uccidere.

La relazione del dicembre del 1993, relatore on. Luciano Violante, di conseguenza, diventa un documento fondamentale per analizzare la realtà camorristica in tutti i suoi aspetti, in quanto, sottolinea:

 La Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminali similari, dopo aver presentato alle Camere la relazione su mafia e politica, che riguardava Cosa Nostra, presenta con questo documento un rapporto sulla struttura e sulle connessioni delle organizzazioni camorristiche. La Camorra è stata sottovalutata. La prima Commissione antimafia, istituita nel 1962, non se ne occupò ritenendola un fenomeno non assimilabile a quello mafioso. Una sentenza del Tribunale di Napoli del 1981, anno del sequestro di Ciro Cirillo e del predominio dell’organizzazione camorristica di Raffaele Cutolo, la Nuova Camorra Organizzata (NCO), spiegava che le misure di prevenzione contro la mafia non potevano essere applicate alla Camorra. Nè è stata mai presentata in Parlamento una relazione sulle organizzazioni camorristiche.
La Camorra, inoltre, riesce a mantenere nella propria regione un controllo del territorio, dell’economia e delle istituzioni locali che non ha eguali nè in Sicilia nè in Calabria; essa ha forti presenze in molte regioni italiane ed un tradizionale radicamento a Roma.
Le indagini giudiziarie e di polizia hanno consentito di accertare l’esistenza in alcuni paesi europei di vere e proprie “stazioni” camorristiche.
Nel corso dell’audizione dinanzi alla Commissione antimafia, il collaboratore di giustizia Pasquale Galasso ha confermato l’esistenza di insediamenti della Camorra in Olanda, in Germania, dove opererebbe il gruppo Licciardi-Contini-Mallardo, in Romania, con un insediamento del gruppo Alfieri, in Francia, con il gruppo di Michele Zaza, in Spagna e Portogallo, dove sono presenti i “Casalesi”, mentre una diramazione del clan Bardellino sarebbe presente a Santo Domingo.
Esistono rapporti pluridecennali tra Cosa Nostra e clan camorristici tramite i quali entrambe le organizzazioni si sono rafforzate finanziariamente e militarmente, hanno potuto più agevolmente sfuggire alle ricerche, hanno esteso i propri interessi su affari di grande rilevanza economica e politica.
Alla disseminazione di gruppi camorristici sul territorio della Campania corrisponde una situazione particolarmente disastrata delle pubbliche istituzioni.
L’unico grande comune italiano per il quale è stato proclamato lo stato di dissesto è Napoli.

Ancora:

La Camorra ha avuto un andamento carsico. La sua duttilità, la sua stretta integrazione con società, politica ed istituzioni, le hanno consentito, in momenti di difficoltà, lunghi periodi di mimetizzazione nella più generale illegalità diffusa che caratterizza la vita dei ceti più poveri di Napoli, al termine dei quali è riemersa con forza. La Camorra non ha mai goduto dell’impunità pressoché secolare propria della mafia. Grandi repressioni ci sono state nel 1860, 1862, 1874, 1883, 1907. In tempi più recenti, nel biennio 1983-1984 con i maxiprocessi alle organizzazioni di Raffaele Cutolo. Tuttavia, fatta eccezione per gli ultimi anni, la repressione ha riguardato solo alcune bande e non il fenomeno nel suo complesso e soprattutto non è stata mai accompagnata dai necessari interventi di carattere sociale. Un importante studio di fine Ottocento la considerava un relitto storico. Nel 1912, dopo il processo Cuocolo, relativo all’assassinio dei coniugi Gennaro e Maria Cuocolo (1906) e fondato sulle rivelazioni di Gennaro Abbatemaggio, pentito ante litteram, la sì dette per finita. Nel 1915 l’allora capo della Camorra napoletana, Del Giudice, la dichiarò sciolta. Il fascismo si vantò della sua soppressione. E.J. Hobsbawm, in un libro del 1959, I ribelli, ne parla come di un fenomeno in via di estinzione. In realtà la Camorra, per il suo altissimo rapporto di integrazione con gli strati più poveri della popolazione, nei momenti di difficoltà perde i suoi connotati specifici e si confonde con l’illegalità diffusa. Ma quando si ripresentano le condizioni idonee riappare, sia pure con significative diversità rispetto al passato.

 Inoltre,

In effetti più che di riapparizione si tratta di riproposizione, in fasi di particolare debolezza dello Stato e della società civile, di un modello criminale fondato sulla intermediazione violenta in attività economiche, legali ed illegali, che si adegua ai caratteri che queste attività assumono nel tempo. L’immersione corrisponde, in genere, non a momenti repressivi particolarmente efficaci, ma a politiche nazionali dirette ad una integrazione dei ceti più poveri, come è accaduto durante l’età giolittiana, o a politiche di sviluppo industriale, come è accaduto in alcune fasi del secondo dopoguerra, che hanno dato a molti la possibilità di guadagnare un salario senza rivolgersi alla Camorra. Carsica, d’altra parte, è stata anche la reazione istituzionale, perchè ad ondate repressive si sono alternate fasi di disattenzione o di spregiudicata utilizzazione politica. La Camorra, a differenza di Cosa Nostra, non contrappone un ordine alternativo a quello dello Stato, ma governa il disordine sociale. In tal senso si presenta sempre con due facce. La prima è rivolta verso la disperazione sociale, che controlla nelle forme più varie. La Camorra è un sodalizio criminoso, che ha per iscopo un lucro illecito e che si esercita da uomini feroci sui deboli per mezzo delle minacce e della violenza <scrive un rapporto del Ministero dell’interno> che risale al 1860. Questa relazione di dominio nei confronti degli strati sociali più poveri è tuttora presente, ma si esprime sempre meno con la violenza diretta e sempre più con la creazione di canali economici illegali, che occupano migliaia di <senza salario>. Tipiche sono le modalità dello smercio di stupefacenti, che a volte coinvolgono interi nuclei familiari. Pari rilevanza ha l’industria del doppio: i falsi Cartier, i falsi Vuitton, eccetera. Questo rapporto di dipendenza economica dei più emarginati consente alla Camorra di disporre di un inesauribile bacino di reclutamento di nuovi quadri. L’altra faccia della Camorra è rivolta verso il potere, in un rapporto di interscambio dal quale emerge che, nella storia, è più spesso il potere ad avere bisogno della Camorra che la Camorra del potere. Proprio questa duplicità ha portato a volte a distinguere tra due camorre, una più legata all’emarginazione sociale e l’altra, invece, più legata alla corruzione amministrativa: la riflessione politica più approfondita sulle due camorre è forse ancora oggi quella contenuta nella relazione della Regia Commissione d’inchiesta su Napoli, presentata nel 1901, dal senatore Saredo: <…Il male più grave, a nostro avviso, fu quello di aver fatto ingigantire la Camorra, lasciandola infiltrare in tutti gli strati della vita pubblica e per tutta la compagine sociale, invece di distruggerla, come dovevano consigliare le libere istituzioni, o per lo meno di tenerla circoscritta, là donde proveniva, cioè negli infimi gradini sociali. In corrispondenza quindi alla bassa Camorra originaria, esercitata sulla povera plebe in tempi di abiezione e di servaggio, con diverse forme di prepotenza si vide sorgere un’alta Camorra, costituita dai più scaltri ed audaci borghesi. Costoro, profittando della ignavia della loro classe e della mancanza in essa di forza di reazione, in gran parte derivante dal disagio economico, ed imponendole la moltitudine prepotente ed ignorante, riuscirono a trarre alimento nei commerci e negli appalti, nelle adunanze politiche e nelle pubbliche amministrazioni, nei circoli, nella stampa. È quest’alta Camorra, che patteggia e mercanteggia colla bassa, e promette per ottenere, e ottiene promettendo, che considera campo da mietere e da sfruttare tutta la pubblica amministrazione, come strumenti la scaltrezza, l’audacia e la violenza, come forza la piazza, che ben a ragione è da considerare come fenomeno più pericoloso, perché ha ristabilito il peggiore dei nepotismi, elevando a regime la prepotenza, sostituendo l’imposizione alla volontà, annullando l’individualità e la libertà e frodando le leggi e la pubblica fede […].
(Regia Commissione d’inchiesta per Napoli, Relazione sull’amministrazione comunale (relatore sen. Saredo), parte I, pp. 49 e 50, 1901)

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