Shiva e Uma (Umamaheshvaramurti)
Fillonite
India, Uttarakhand
Periodo katyuri, X-XI secc.
Museo delle Civiltà/museo d’arte orientale ‘Giuseppe Tucci’, inv. 8443
Shiva, la divinità maggiormente venerata in India, è figura ambivalente, che sintetizza qualità opposte e speculari: se da un lato egli possiede il pieno potere della fecondità, sintetizza altresì tutte le energie delle esperienze mistiche ed è chiamato, sotto questo aspetto, Yogishvara, il ‘signore degli yogin’. Più di ogni altra divinità, è non solo un dio personale, ma l’Assoluto senza attributi, né possibilità di definizione da cui la divinità che possiede una forma, l’anima individuale e l’universo stesso provengono.
L’arte indiana manifesta questa perenne oscillazione del pensiero shivaita tra la concezione metafisica del dio quale simbolo della Realtà suprema e l’aspetto visibile di divinità personale che si rivela al mondo, alternando la rappresentazione aniconica del linga – fallo e pilastro cosmico a un tempo, segno della presenza dell’Immanifesto – e quella dell’immagine antropomorfa di Shiva.
Tra le molteplici raffigurazioni antropomorfe che ritraggono i vari aspetti di questa divinità, particolarmente diffusa è l’icona che lo rappresenta accanto Parvati o Uma, la sua sposa, dea venerata in India sotto molte forme, incarnazione di quel potere femminile (shakti) che rende possibile al dio di manifestarsi. Una delle immagini più diffuse della coppia è quella che raffigura i due dèi seduti in un atteggiamento di intimità fisica e corrispondenza emotiva, come nel caso della stele conservata in Museo, recentemente restaurata grazie alla Fondazione Paola Droghetti, che oggi presentiamo quale oggetto del mese.
Questo tipo figurativo, denominato nei trattati tecnici in lingua sanscrita con il composto Umamaheshvaramurti (l’immagine di Uma con il grande signore), è caratterizzato da numerose varianti regionali. Nel caso della nostra stele, le caratteristiche stilistiche e iconografiche riconducono la scultura all’area di Almora, in Uttarakhand, regione ai piedi dell’Himalaya, e la fanno datare al X-XI secolo d. C., durante il periodo dei Katyuri, dinastia che governò in questi territori tra l’VIII e il XII secolo. L’opera mostra connessioni con un gruppo di sculture provenienti dalla stessa area, abbastanza omogeneo dal punto di vista stilistico e figurativo: si rammentano ad esempio alcune Umamaheshvaramurti conservate in musei europei e americani: nel Victoria and Albert Museum, nel British Museum, nel Metropolitan Museum.
Shiva appare qui rappresentato con quattro braccia, seduto nella posa regale (lalitasana), con la gamba sinistra ripiegata e poggiata sul seggio in forma di loto e la destra pendente, mentre tiene in braccio, stringendola a sé, Uma. La divinità ha la mano destra inferiore in jnanamudra (il gesto della conoscenza) eseguito con l’indice e il pollice uniti e il palmo rivolto verso il cuore; nella mano destra superiore reca un fiore (loto?); nella sinistra superiore brandisce il tridente (trishula); con il braccio sinistro inferiore cinge le spalle della dea. Sul capo ha la classica acconciatura dell’asceta, arricchita da un elaborato diadema tripartito, da cui emerge un serpente. Vestito con una corta dhoti, con il lungo cordone brahmanico (yajnopavipavita) realizzato con dei fili di perle che gli attraversa diagonalmente il torace, Shiva è adorno di molteplici gioielli e indossa una ghirlanda di fiori (vanamala). Le ginocchia sono cinte dalla fascia di tessuto (yogapatta) impiegata dagli yogin per mantenere la postura delle gambe incrociate durante le pratiche meditative. Uma, che ha il corpo lievemente rivolto a sinistra e la testa girata a destra a guardare il marito, compie un gesto di intimità toccando con il palmo della mano destra il piede dello sposo. Finemente ingioiellata, la dea indossa una lunga gonna drappeggiata. Tra la moltitudine di personaggi di proporzioni minori che circondano le due divinità, in basso sono rappresentati i due figli della coppia: a sinistra Ganesha, il dio dalla testa di elefante, dal grande ventre, seduto in ardhaparyankasana, la cui figura è molto danneggiata, e a destra Karttikeya, il dio della guerra, munito di lancia e seduto sul suo veicolo (vahana), il pavone. Immediatamente sotto al seggio in forma di loto su cui siedono le due divinità principali, sono riconoscibili i veicoli di Shiva e Uma, rispettivamente il toro Nandi e il leone, e tra questi la piccola immagine scheletrica e danzante del saggio Bhrngi.
La composizione è completata dalla presenza di altri personaggi: ai lati delle due divinità sono due figure maschili stanti in funzione di attendenti/guardiani (pratyhara): quello a sinistra è vestito e acconciato come Shiva, ha occhi spalancati e fuoriuscenti dalle orbite, nella mano sinistra reca un’asta sormontata da un cranio (kapala) e nella destra portata al petto ha una coppa; l’attendente di destra è munito di uno scacciamosche (chauri). Al di sopra di questi personaggi sono rappresentate due figure femminili con scacciamosche, sedute su fiori di loto. In alto a sinistra è un vidyadhara (portatore di saggezza) in volo con una ghirlanda, simbolo del raggiungimento della Liberazione (mukti), la cui immagine si staglia su un motivo a nuvola. Un altro vidyadhara, purtroppo scomparso, doveva essere rappresentato a destra, dove sono ancora visibili i contorni della nuvola e la sagoma della figura. La stele è definita in alto da una fascia curvilinea a decorazione fitomorfa, probabilmente parte dell’aureola che circonda la coppia divina.
La profonda relazione di afflato sentimentale che intercorre tra le due figure teneramente abbracciate e immerse l’una nello sguardo dell’altra sembra riecheggiare alcuni brani della letteratura sanscrita che descrivono l’abbraccio di Shiva, la dea seduta sul suo grembo e lo sguardo mai soddisfatto del dio nell’ammirare la bellezza di lei. Pur evocata la dimensione coniugale, non viene tuttavia negata la natura ascetica della divinità, evidenziata dall’abbigliamento (qui ad esempio dallo yogapatta annodato intorno alle ginocchia) e dall’acconciatura di Shiva. L’immagine in sostanza riproduce in un rapporto ambivalente quella tensione tra l’eros e la rinuncia a esso, tra la passione e il suo superamento che caratterizza molta mitologia shivaita. Il dettaglio del dio che compie il ‘gesto della conoscenza’, con il pollice e l’indice della mano destra inferiore uniti a formare un cerchio e il palmo rivolto verso il cuore, segno che indica la trasmissione di una conoscenza interiore, fornisce un’ulteriore chiave di lettura dell’immagine. Tale gestualità evidenzia nella divinità l’aspetto di Dakshinamurti, il Maestro universale (jagat guru), la cui icona era particolarmente diffusa nel Sud dell’India.
La tradizione figurativa meridionale però rappresentava questa forma di Shiva isolata (kevala murti) o talora attorniata dai suoi discepoli, molto raramente la connetteva alla figura della dea. In Uttarakhand, l’impiego di questa immagine sembra essere legata all’arrivo di Shankaracharya (788-820), il filosofo dell’India meridionale che in questi territori ai piedi dell’Himalaya restaurò la fede brahmanica (in particolar modo lo Shivaismo), stabilendo un monastero (matha) a Jyotirmath. Se la presenza dell’immagine di Dakshinamurti in Uttarakhand può essere spiegata con il passaggio di Shankara nella regione e quindi per i contatti intrattenuti con esponenti della tradizione religiosa e culturale dell’India meridionale, la contaminazione tra questa rappresentazione della divinità e l’icona di Umamaheshvara è certamente opera degli artisti katyuri e appare particolarmente distintiva di questa area, anche se esempi della fusione di queste due iconografie sono attestati pure in altre regioni dell’India: soprattutto nelle aree settentrionali (Uttar Pradesh e Rajasthan), in quelle orientali (Orissa) e nel Madhya Pradesh. Le motivazioni di questa sintesi figurativa sono difficili da comprendere. Non è improbabile che questa immagine rappresenti la trasposizione scultorea della coppia dialogante evocata in molti testi tantrici ove l’insegnamento viene impartito nella forma di un colloquio tra le due divinità, e ove Shiva è descritto esporre la conoscenza e i segreti dello yoga alla sua sposa, come se li impartisse al mondo intero. Da un lato paradigma e archetipo della famiglia, la stele conservata presso il Museo, evoca dunque quella relazione tra maestro (guru) e discepolo, che è uno dei fondamenti del pensiero indiano.