[a cura di Laura Giuliano]
Uno dei problemi maggiormente dibattuti nell’ambito degli studi gandharici ha riguardato l’origine dell’immagine antropomorfa del Buddha. Nei secoli precedenti l’era cristiana l’arte buddhista dell’India era stata aniconica. A Bharhut, Sanci, Bodh Gaya e in parte ad Amaravati, i più antichi siti buddhisti dell’India, il Buddha non veniva raffigurato in forma umana, ma attraverso simboli che avevano la funzione di alludere alla realtà ineffabile della Illuminazione e del dharma. Dopo molte polemiche è oggi forse possibile affernare che la prima immagine antropomorfa del Buddha venne elaborata probabilmente verso la fine del I secolo a.C. a Mathura, centro artistico dell’India settentrionale. Tale raffigurazione fu accolta nel Gandhara e venne presto reinterpretata secondo regole e canoni estetici in parte influenzati dall’arte ellenistico-romana.
Le reali ragioni di questo mutamento figurativo nell’arte buddhista non sono note. Se in precedenza la rappresentazione antropomorfa del Buddha era stata considerata inadeguata ad esprimere la realtà assoluta, ora, a causa di mutamenti intervenuti nel pensiero religioso – quali la bhakti (devozione) -, veniva elaborata una icona che attraverso una serie di “segni” alludeva non solo al Buddha storico, ma ai valori assoluti legati alla predicazione del dharma.
L’immagine del Buddha nel Gandhara appare concepita attraverso l’ausilio di elementi eterogenei di diversa provenienza, finalizzati ad esprimere il valore universale della Illuminazione (Figg. 1-3). I segni tratti dal patrimonio culturale indiano che contraddistinguono questa figura sono descritti nei testi buddhisti che elencano gli attributi fisici e psichici del Buddha: egli sin dalla nascita aveva mostrato sul proprio corpo i segni del mahapurusha – il “macrantropo”, l’uomo cosmico -, i cosiddetti lakshana (32 principali e 80 secondari). Due di questi segni si adattavano ad essere rappresentati in forma scultorea: l’ushnisha, la protuberanza cranica coperta di capelli acconciati in forma di chignon, segno della sua sapienza, e l’urna, che la tradizione indica come un ciuffo di peli tra le sopracciglia, simbolo del potere di visione interiore posseduto dal Maestro, resa come una pastiglia sporgente o un incavo in cui era inserita una pietra preziosa o dura. L’immagine appare poi qualificata da un nimbo che circonda il capo, elemento forse di origine occidentale, e talora da una mandorla di luce intorno al corpo, che indicano la luminosità interiore del Buddha, percepibile anche fisicamente. I lobi delle orecchie molto allungati, simbolo di rinuncia, non sono elencati nella lista dei lakshana ma rappresentano un segno “provocato” dai pesanti orecchini indossati dai principi indiani, dei quali Siddhartha si era spogliato insieme alle sue vesti principesche nel momento in cui aveva deciso di recidere ogni legame con la vita precedentemente condotta. Il Buddha gandharico appare inoltre caratterizzato dall’abito monastico, costituito da tre rettangoli di tessuto differentemente drappeggiati intorno al corpo: l’antaravasaka, una sorta di lunga gonna stretta intorno ai fianchi, l’uttarasamgha, uno scialle che copre la spalla sinistra e la samghati, il mantello monastico, che nel Gandhara si sovrappone agli altri due capi di abbigliamento ed avvolge interamente il corpo, coprendo ambedue le spalle. Per “costruire” la figura del Buddha gli artisti si servono di un codice gestuale desunto dallo yoga e ispirato in parte all’arte della danza: l’immagine appare così rappresentata in particolari posizioni del corpo (asana) ed attitudini gestuali (mudra) che hanno il compito di chiarire ulteriormente lo stato interiore del personaggio o l’evento della vita del Maestro cui ci si riferisce.