Il progetto italo-thailandese “Lopburi Regional Archaeological Project” (Lo.R.A.P.)
[R. Ciarla (Museo Nazionale d’Arte Orientale ‘G. Tucci’), F. Rispoli (Associazione Internazionale di Studi sul Mediterraneo e l’Oriente – ISMEO), P. Yukongdi (4th Regional Office, Lopburi, Thai Fine Arts Department)]
1. L’Asia sud-orientale
La fisiografia dell’Asia sud-orientale, o Sudest asiatico, è articolata in due distinte entità [FIG. 1]: quella degli arcipelaghi Indonesiano e delle Filippine, collegamento con il mondo arcipelagico del Pacifico, e quella continentale, nota anche come Penisola Indocinese, incuneata tra l’India e la Cina, tra l’Oceano Indiano a ovest e il Mar Cinese a est [FIG. 2].
La porzione continentale dell’Asia sud-orientale è in realtà parte integrante di una vasta regione connessa dai bacini idrografici di grandi fiumi che hanno origine in una ristretta regione di nevi perenni sull’Himalaya orientale: lo Yangtze a nord, l’Irrawaddy e il Salween a ovest, il Sijiang/Zhujiang a est, e, più a sud, il Song Hong e il Mekong, la ‘Madre delle Acque’, che dall’Himalaya attraversa per intero la Penisola Indocinese disegnando i confini odierni tra Cina e Laos, tra Laos, Thailandia e Cambogia, tra Cambogia e Vietnam [FIG. 3].
Oggi come ieri, un mosaico complesso di popolazioni diverse per origine, lingua, e tradizioni culturali condivide le terre dell’Asia sud-orientale, dove il concetto di rigido confine è stato a fatica costruito solo nel corso degli ultimi secoli dagli eventi che hanno portato a formare gli odierni Stati.
Posto a una latitudine tra la fascia climatica subequatoriale e quella subtropicale e tra due oceani, causa dell’alternanza dei monsoni –uno proveniente da sud-ovest (Oceano Indiano) e l’altro da nord-est (Oceano Pacifico)– [FIG. 4] il Sudest asiatico continentale non è mai stato isolato dal resto dell’Asia Estrema: a Nord il contatto con l’altopiano di Yunnan/Guizhou e il sistema collinare del Guangxi/Guangdong ha fatto sì che, ancora oggi, sia difficile stabilire una netta linea di separazione tra Sudest asiatico continentale e Cina meridionale (geograficamente parte dell’Asia orientale).
Oltre al ruolo d’intermediazione e di contatto svolto dai grandi fiumi, non meno importante è stato quello giocato dall’Oceano Indiano, attraverso il quale, tra la fine del I millennio a.C. e per buona parte del millennio successivo, Asia sud-orientale e Subcontinente indiano stabilirono un intenso e fecondo rapporto di scambio di beni e di idee. Tuttavia, mentre i dati archeologici testimoniano una continua interazione con le regioni dell’odierna Cina a partire dall’Età paleolitica, nel caso dell’India l’interscambio rimase circoscritto in un arco di tempo molto più limitato.
2. Il progetto archeologico Italo-Thailandese
Il “Lopburi Regional Archaeological Project” è iniziato nel 1988 con un accordo di collaborazione scientifica tra l’Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente (IsMEO poi IsIAO) e la Divisione di Archeologia del Dipartimento di Belle Arti della Thailandia (Thai FAD) [FIG. 5].
Il progetto, diretto dal dott. Roberto Ciarla, ha avuto poi la costante collaborazione, regolata da accordi ad hoc, del Museo Nazionale d’Arte Orientale ‘G. Tucci’ per le attività di campo, di studio e di restauro.
L’area delle indagini è la regione di Lopburi compresa tra la fascia collinare di Takli, la valle intermontana del Khao Wong Prachan e il basso corso del F. Lopburi alla confluenza nel Pasak, principale affluente di sinistra del F. Menam Chao Praya [FIG. 6].
Tale regione, margine orientale della depressione tettonica nota come Pianura Centrale, gode di clima tropicale di savana (temperatura m.a. 28.6 °C) con una piovosità di 1370 mm concentrata nella stagione umida (maggio-ottobre). La fisiografia dell’area include la piana alluvionale olocenica, la sua cornice montana orientale e le isolate formazioni rocciose (del tipo noto come inselberg o monadnock). Tali rilievi, originati dalla frizione tra placche continentali (Shan-Thai, Indocinese, Pacifica) consistono di calcari permiani e carboniferi e di rocce intrusive del Terziario; al contatto tra i due orizzonti litologici emergono le mineralizzazioni di rame sfruttate in preistoria [FIG. 7].
Il Lo.R.A.P. ha per obiettivo la definizione del ruolo svolto dall’espansione della risicoltura, dalla crescita delle attività artigianali e dai commerci su lunga distanza nei processi di formazione delle società complesse della Thailandia centrale tra il 2000 a.C. e il 500 d.C., con particolare riferimento alle interazioni culturali intercorse con la civiltà cinese e quella indiana.
La nostra ricerca investe quattro principali linee d’indagine:
- Il processo di neolitizzazione, conseguente alla dispersione della risicoltura dai centri di domesticazione situati nella media valle dello Yangtze (Cina centrale); entro tale processo si inquadra la distintiva produzione di vasellame di terracotta con specifici motivi decorativi incisi-e-impressi (I&I) condivisi dalle comunità di villaggio distribuite dalla Cina meridionale all’intera Asia sud-orientale (ca. 1800-1100 a.C.) [FIG. 8].
- L’adozione (ca. 1100-1000 a.C.) delle tecniche di estrazione, riduzione e getto del rame entro matrici di terracotta del tipo “a conchiglia” con nucleo interno sospeso [FIG. 9]. Sulla base dei dati oggi disponibili, si ritiene che tali tecniche, di lontana origine centro-asiatica, furono trasmesse nel Sudest asiatico attraverso la Cina sud-orientale seguendo le valli fluviali già percorse dalla dispersione dei risicoltori.
- L’improvvisa attestazione della siderurgia intorno al 500 a.C. che, facilitando le tecniche di coltivazione delle risaie e di estrazione del rame [FIG. 10], consentì una generale crescita demografica ed economica con la formazione di centri di aggregazione sociale e di specializzazione artigianale e agricola organizzati secondo un modello insediamentale caratterizzato da una scala gerarchica di siti cinti da fossato e terrapieno (moated sites) (ca. 500 a.C.-500 d.C.) [FIG. 11]
- L’interruzione dei rapporti interattivi con la Cina meridionale e l’affermazione del fenomeno noto come “indianizzazione”, consistente nella localizzazione di elementi culturali/ideologici originari del Subcontinente indiano. Nella nostra ipotesi tale cambiamento, tra il sec. III a.C. e il sec. II d.C., fu innescato, da una parte, dalla reazione all’espansione dell’impero Qin-Han verso le regioni settentrionali dell’Asia sud-orientale, dall’altra, dalla crescita verso esiti statali delle polities indo-gangetiche. Tale crescita, infatti, sembra sia stata anche favorita dall’acquisizione, per pacifico scambio, di esotici beni di lusso e di metalli dall’Asia sud-orientale. L’evidenza dell’iniziale interazione con il Subcontinente (secc. III a.C.-II d.C.) nella regione di Lopburi si riscontra nella presenza di importazioni e di imitazioni di oggetti “indiani” [FIG. 12].
Il controllo e la gestione degli scambi per l’ottenimento di tali beni (inclusi tipi vascolari, oggetti da toeletta ed elaborate perle di corniola e d’oro) [FIG. 13] da parte delle élite della Thailandia centrale, tra il II/I e il V/VI sec., furono strategici per la crescita della complessità sociale sfociata nell’adozione e adattamento di complesse concezioni ideologiche e forme di culto hindu e buddhiste [FIG. 14]
Tali concezioni e culti alloctoni si evidenziano chiaramente nella presenza di beni importati dall’occidente [FIG. 15] e nel fenomeno artistico Dvaravati, condiviso da una rete (forse una sorta di confederazione) di porti, centri urbani e religiosi di lingua e popolazione Mon, distribuiti nell’intera Thailandia centrale tra il sec. VII e il sec. X-XI [FIG. 16]
Di questi centri Lopburi, antica Lavo o Lavapura [FIG. 17], fu uno dei più importanti prima di divenire il principale avamposto politico e artistico dell’impero Khmer ad occidente della Piana di Angkor, allorché si evidenzia con prepotenza anche la ripresa degli scambi culturali e commerciali con l’impero cinese [FIG. 18].
3. Indagini archeologiche a Tha Kae (1988-1993)
Il sito di Tha Kae (distretto di Lopburi, prov. di Lopburi, lat. 14°15’40” – long 100°37’10’’) [FIG. 19], nelle fotografie aeree dei primi anni Cinquanta è chiaramente riconoscibile come un ampio insediamento (ca. 13 ettari) cinto da un doppio sistema di fossati e terrapieni (moated site).
Il sito si trova su un terrazzo fluviale, nell’ansa di un paleo-alveo, formato dal terreno carbonatico di colore candido (calìce) caratteristico della regione di Lopburi [FIG. 20]. Tale terreno (usato in antico per realizzare mattoni cotti al sole o piattaforme isolanti nell’architettura vernacolare) negli anni Settanta iniziò ad essere cavato con mezzi meccanici per essere usato nella costruzione del compatto basamento di fondazione delle tradizionali case rialzate su pali di legno o di cemento [Fig. 21 a-b]. Certamente meno distruttivo era invece l’impiego del calìce, che ha una matrice pulverulenta e blandamente idrofila, nella produzione artigianale di panetti aromatizzati usati nella cosmesi popolare come una sorta di borotalco compatto [FIG. 21 c-d].
L’effetto immediato della cavatura industriale del calìce sottostante il sito archeologico, invece, oltre a un certo degrado ambientale, fu quello di sconvolgere le antiche tombe portandone alla luce i corredi funerari. I locali capirono subito che le fosse dalla sagoma rettangolare, riempite di terreno scuro e ben visibili a contrasto con il bianco del terreno di base, erano sepolture di una qualche antica popolazione che, diversamente dai buddhisti, non praticava la cremazione [FIG. 22].
Il sito, che all’epoca non potè essere protetto, quindi restò in balia degli scavatori clandestini e delle pale meccaniche; la Divisione di Archeologia del Thai FAD solo all’inizio degli anni Ottanta fu in grado di condurre limitati intervento di salvataggio. I risultati di tali interventi non furono ritenuti sufficienti, tuttavia, per adire al complesso iter della salvaguardia del sito da parte dello Stato. Fu così che, in accordo con i colleghi della Divisione di Archeologia, nel 1988 decidemmo che il primo impegno sul campo del Lo.R.A.P. sarebbe stato proprio l’indagine del sito di Tha Kae, sul punto di essere completamente distrutto dalle attività di cava e dai predatori; i lunghi tunnel sotterranei di questi ultimi, nell’Aprile del 1993, avrebbero comunque imposto l’abbandono delle attività di scavo. Vale la pena di ricordare che, diversamente dai più noti siti del Vicino e Medio Oriente, dove il succedersi delle attività antropiche e naturali nel corso dei secoli ha formato le grandi stratificazioni a forma di collina (tell o tepe), nelle regioni monsoniche subtropicali del Sudest asiatico i depositi archeologici, pur coprendo svariati millenni, subiscono un processo di ‘compattamento’ da parte degli agenti naturali e non superano, nel migliore dei casi, i 6-8 metri di spessore. Ciò significa che gli scavatori clandestini possono esaurire questi depositi in brevissimo tempo, mentre agli archeologi si richiede eccezionale cautela per poter distinguere correttamente la sequenza degli strati.
A Tha Kae, ad esempio, sono state necessarie quattro campagne di scavo (1988-1993) per ricostruire la storia del deposito archeologico, spesso ca. 3 m. nelle aree di maggiore potenza, con fasi di occupazione databili tra l’inizio del II millennio a.C. e il sec. XVII d.C. [FIG. 23].
Lo studio delle sezioni esposte (1988) e le successive indagini stratigrafiche (su una superficie totale di 220 m2) stabilirono che la porzione di maggiore spessore del deposito conservava un importante livello basale, in cui furono distinti due strati: il primo di Età neolitica (ca. 1800-1100 a.C.), il secondo dell’Età del bronzo (ca. 1100-500 a.C.). Poiché l’attività dei clandestini si era concentrata proprio sulla porzione più bassa del deposito archeologico, della fase neolitica fu possibile indagare solo alcune sepolture accompagnate da monili di conchiglia e vasi di terracotta sia con decorazioni a meandro ‘incise-e-impresse’, sia con decorazioni a motivi dipinti [FIG. 24].
Nell’impasto dei vasi di quest’ultimo tipo, poi, è rilevante la presenza di cariossidi di riso domestico, che testimoniano la fase di transizione delle locali comunità di cacciatori-raccoglitori verso l’economia risicola [FIG. 25]. Nello strato dell’Età del bronzo il più importante rinvenimento fu un’area per la produzione di monili di conchiglia (in particolare Tridacna sp.) datata al 14C entro la prima metà del I millennio a.C. La quantità di scarti di lavorazione e di manufatti semi-finiti rinvenuti in quest’area non solo ha permesso di ricostruire l’intero ciclo di manifattura dei monili, ma ci ha anche consentito di indicare con relativa precisione il momento in cui le attività artigianali si staccarono dalla produzione per il consumo strettamente locale. Numerosi ornamenti di conchiglia comparabili a quelli realizzati nel sito di Tha Kae –all’epoca ancora prossimo al Golfo di Thailandia- sono stati rinvenuti tra i beni di prestigio deposti nelle coeve sepolture scavate in aree lontane dalle acque salmastre del Golfo dove la conchiglia era verosimilmente raccolta. Tali rinvenimenti indicano chiaramente che i monili di conchiglia avevano un rilevante valore di status e che la loro la circolazione avveniva su circuiti di scambio inter-regionale. [FIG. 26]. Un deciso incremento sia della coltivazione risicola che della produzione di manufatti di rame/bronzo, si verificò con la diffusione di più efficienti utensili di ferro; questi permisero, infatti, da una parte di lavorare con maggiore facilità i duri suoli argillosi della regione, dall’altra di aggredire con più efficienza le vene metallifere. L’incremento della produzione risicola (con maggiore disponibilità di cibo, accumulo di surplus alimentare, maggiore organizzazione del lavoro) ebbe come conseguenza un fenomeno di crescita demografica e della complessità sociale (ca. 500-400 a.C.). Ciò si evince dalla presenza di canalizzazioni (verosimilmente per l’alimentazione di risaie) all’interno dell’insediamento dell’Età del ferro (secc. III a.C.-II d.C.) cinto da fossato e terrapieno, nei cimiteri dall’incremento del numero di sepolture, alcune delle quali sono chiaramente ‘tombe familiari’, e dai beni in esse deposti, che includono monili di bronzo, attrezzi agricoli e armi di ferro [FIG. 27].
Questo endogeno processo di crescita sociale, accelerato dall’instaurarsi di scambi su lunga distanza (importazioni indiane o loro imitazioni locali), culminò con il fiorire del fenomeno artistico Dvaravati (secc. VII-X). Riferibili a tale ambito culturale sono i resti di un’ampia struttura architettonica in mattoni, largamente distrutta dai lavori di cava, che, per le sue dimensioni e la presenza di piccole lampade votive di terracotta, si può ipotizzare avesse originariamente una funzione religiosa [FIG. 28].Diversi e sofisticati manufatti di ambito Dvaravati (inclusi oggetti di culto) provenienti dalle aree distrutte del sito, ma recuperati nel corso degli anni dal Thai FAD e da benemeriti privati, testimoniano dell’importante ruolo che ebbe il moated site, ormai nell’orbita del centro di Lopburi, per la probabile presenza di una comunità religiosa buddhista. Tale ruolo non decrebbe durante il periodo Khmer (secc. XI-XIII/XIV) come si può dedurre dal rinvenimento nello strato 1 del deposito (spesso ca. 10 cm) nella trincea principale (Op. 1) di numerosissimi frammenti e vasi interi di gres invetriato Khmer e di coeva porcellana cinese [Fig. 29]. Ancora nella porzione apicale dell’ultimo strato dell’area scavata dal Lo.R.A.P., e in diverse “isole” di deposito superstite, i ritrovamenti di vasellame di gres invetriato prodotto dalle fornaci di Sukhothai (secc. XIII-XIV) e di frammenti di vasi di terracotta a decori impressi del periodo Ayutthaya (secc. XV-XVII) testimoniano della continuità dell’insediamento, lentamente spostatosi verso il margine occidentale del terrazzo fluviale nel corso degli ultimi 300 anni e, in particolare, dopo la costruzione (anni ’40) della stazione ferroviaria di Tha Kae sulla strategica linea Bangkok-Chiangmai.
4. Indagini archeologiche a Phu Noi (1994-1995)
Il sito di Phu Noi (distretto di Ban Mi, prov. di Lopburi; lat. 15°14’07”, long. 100°35’48”) è situato nella c.d. ‘fascia collinare di Takli’, al margine nord-occidentale della Piana di Lopburi [FIG. 30]. Un primo intervento di salvataggio fu condotto nel 1990 dalla Divisione di Archeologia del Thai FAD presso un cantiere edile nel monastero del villaggio e portò alla luce 32 sepolture – suddivise in tre fasi mortuarie – con ricchi corredi di vasi fittili e monili di conchiglia, carapace di tartaruga, avorio e pietra. Le sepolture, per l’assenza di metallo nei corredi, e in base a una prima valutazione della tipologia vascolare, furono preliminarmente datate tra il 2000 e il 1500 a.C. L’indagine del sito (ca. 5 ettari) fu poi ripresa dal Lo.R.A.P. [FIG. 31]; tale indagine permise di accertare che il deposito archeologico – di spessore variabile da ca. 25 a ca. 250 cm – era formato da uno strato inferiore interessato da tre fasi di una vasta necropoli ad inumazione e da uno strato superiore prevalentemente caratterizzato da resti di abitato [FIG. 32].
Come di frequente accade negli ambienti monsonici dell’Asia sud-orientale, l’elevata bio-turbazione co- e post-deposizionale non ha consentito di raccogliere affidabili campioni organici da sottoporre a datazione radiometrica. Tuttavia, il rinvenimento di manufatti di bronzo ad alto tenore di stagno, insieme alla tipologia del vasellame fittile e al diagnostico rituale d’inumazione (caratterizzato dall’offerta di porzioni di animale accanto o sopra il bacino del defunto o nei pressi del cranio) hanno permesso di stabilire, grazie ai confronti con simili rinvenimenti in siti datati al 14C, che le tre fasi necropolari, riconosciute in base alla sequenza stratigrafica di più di 50 fosse di sepoltura, potevano essere datate tra la fine dell’Età del bronzo (800-500 a.C.) [FIG. 33] e la media Età del ferro (200 a.C.-200 d.C.) [FIG. 34]. Rilevante per la comprensione del processo di crescita socio-economica di questa piccola e periferica comunità della Thailandia centrale nella tarda Età del bronzo, fu il rinvenimento di fusaiole di terracotta che, in numero variabile, erano deposte in quasi tutte le ‘sepolture femminili’ [FIG. 35].
Tali semplici utensili, infatti, testimoniano lo sviluppo di attività di filatura-tessitura da inquadrare nell’ambito di una produzione artigianale verosimilmente a conduzione familiare, ma forse non limitata al solo consumo locale. L’evidenza di intense attività di tessitura in questo sito è particolarmente suggestiva, in quanto il distretto di Ban Mi è, ancora oggi, rinomato per la manifattura di pregiati tessuti di seta o cotone noti come sarong Mat Mi, che solo poche ed esperte tessitrici producono su telai tradizionali tramandati di generazione in generazione [FIG. 36]. Lo strato abitativo superiore di Phu Noi, che include la terza fase necropolare (200 a.C.-200 d.C.), è caratterizzato da una distintiva industria su osso/corno, da lisciatori di arenaria verosimilmente a questa connessi e da frammenti di valve di matrici di terracotta, del tipo “a conchiglia”, caratterizzate da spazi di colata per il getto di piccoli e sottili strumenti di bronzo, confrontabili con matrici e strumenti rinvenuti in diversi siti di produzione metallurgica dell’Età del ferro nella provincia di Lopburi [FIG. 37]. Tale strato, in cui si segnala la comparsa di manufatti di imitazione indiana (quali i c.d. levigatoi o skin rubbers e i monili di terracotta), è databile tra il 200 a.C. e il 400/500 d.C.
La presenza di manufatti di imitazione/importazione indiana tra i resti di una piccola e periferica comunità rurale assume una notevole rilevanza in quanto segnala l’ampiezza e la capillare diffusione, probabilmente mediata dai centri della pianura (quali i moated sites di Tha Kae e di Lopburi), del fenomeno di localizzazione di oggetti e di modelli comportamentali originari del Subcontinente indiano: ad es., le pratiche rituali di igiene personale evidenziate dall’uso dei levigatoi.
5. Indagini archeologiche a Khao Sai On 2006-2008
Nel 1989 la ricognizione geomorfologica della Piana di Lopburi, condotta da M. Cremaschi (Università di Milano-Bicocca) nell’ambito del Lo.R.A.P., portò all’individuazione di vene di roccia cuprifera in un affioramento calcareo noto come Khao Sai On (KSO; H. 74 m; lat. 14°50’10”, long. 100°37′; 10 km. SE di Lopburi). La zona fu quindi oggetto di una ricognizione archeologica che portò all’individuazione di un’area di ca. 500 m2 (denominata Khok Din) legata ad attività metallurgiche pre-protostoriche, quali: sgrossatura della roccia madre, riduzione del rame e fusione di piccoli attrezzi a getto entro stampi di terracotta del tipo “a conchiglia”. Successive ricognizioni rilevarono diverse altre emergenze entro un raggio di ca. 2 km dall’affioramento roccioso di KSO. Nel 2006 iniziammo le ricerche nell’area con due saggi stratigrafici nelle località di Khok Din e Noen Din, cui seguirono interventi di scavo di maggiore ampiezza nel 2007 e nel 2008 [FIG. 38].
Nel monticolo di Khok Din, formato dai resti di lavorazione di roccia cuprifera, a c. 88 m dalla collina di KSO, le indagini stratigrafiche hanno messo in luce un deposito formato da “piani” di attività [FIG. 39] e “lenti” sovrapposte di graniglia di rocce metallifere (soprattutto quarzo e diorite con residui di ossidi e carbonati di rame) [FIG. 40] mista a frammenti di ganga, di scoria, di manufatti usati per la frantumazione e vagliatura della roccia madre (martelli e incudini di pietra) e per la raffinazione del metallo (crogiuoli e “collari” di fornace in terracotta) associati a frammenti di vasellame domestico. Sia la tipologia di tale vasellame che delle ceramiche industriali indica una datazione del deposito di KD tra la fine del I millennio a.C. e l’inizio del successivo [FIG. 41].
Lo spesso accumulo industriale di KD, formato dai residui micro-stratificati di ripetuti cicli di lavorazione, si sviluppò direttamente sul banco di calcare naturale a contatto con un affioramento di suolo lateritico. In questa parte basale del deposito, associate a frammenti di legno carbonizzato (non ancora datati al 14C), sono state rinvenute almeno due aree di attività, ciascuna interessata da un accumulo di argilla cotta. Sebbene non sia stato possibile distinguere una vera e propria struttura nell’informe massa di argilla, e lo studio dei dati rinvenuti nello scavo di KD, in particolare quello delle ‘ceramiche industriali’, sia ancora in corso, tuttavia ci sembra fondato ipotizzare che le due masse di argilla in origine esposte al fuoco, sia per confronto con simili ma meglio preservati rinvenimenti in altri siti della Thailandia, sia per la prossimità di cumuli di roccia proveniente dalla collina di Kao Sai On, possano essere resti di fornaci completamente disfatte dagli agenti atmosferici dopo il loro abbandono. L’insieme dei rinvenimenti suggerisce che potrebbe trattarsi di aree in cui la roccia madre era frantumata per separare la porzione cuprifera che era poi ridotta in metallina (smelting) in semplici ‘fornaci a tazza’ (bowl-furnace) formate da una ‘fossetta’ scavata nel terreno e da una sorta di parete di argilla [FIG. 42].
E’ noto che questo tipo di fornace può produrre pochissima scoria, che infatti risulta quasi del tutto assente nella porzione più bassa del deposito, come sono anche rarissimi i frammenti di crogiolo. Questi ultimi aumentano sensibilmente nella porzione più consistente, e più tarda, dell’accumulo micro-stratificato, dove oltre a rari frammenti di scoria di rame, sono stati rinvenuti in abbondanza grossi frammenti di oggetti circolari di argilla dalle pareti forate. La forma originaria di tali oggetti è stata riconosciuta grazie al rinvenimento di un esemplare intero nella tomba G2 del vicino sito di Noen Din [FIG. 43].
Si tratta di cilindri di argilla ad impasto grossolano (alt. c. 20 cm; diam. c. 25 cm) con spessa parete attraversata da due ordini di fori, da cui il nome di ‘collari forati’. Nella nostra ipotesi tali ‘collari forati’ facevano parte delle fornaci, essendo posti sul bordo della fossa foderata di argilla dove era sistemato il crogiolo contenente il minerale. Il combustibile caricato nella struttura, a ricoprire il vaso di reazione, era con ogni probabilità carbone di legna che, una volta acceso, poteva essere arricchito di ossigeno o insufflando aria servendosi di una canna (bambù?), o (meno probabile) per ventilazione naturale; come nella bowl-furnace anche in questo metodo di riduzione del rame la quantità di scoria prodotta può essere trascurabile.
La Miniera
Rilevante è stata inoltre l’individuazione di una vasta depressione sul versante orientale della collina di KSO, che tendiamo a identificare come una miniera di rame a cielo aperto per lo sfruttamento del cappellaccio riferibile all’Età del ferro [FIG. 44A]. Alle quote più alte, sulle pareti di diversi pinnacoli calcarei, la presenza di modesti cristalli e residue ossidazioni di minerali di rame, in forma di macchie e sbavature di colore verde e bluastro, e di cavità verticali sono suggestive di più antiche fasi estrattive [FIG. 44B].
Khao Sai On – sito di Noen Din
A Noen Din (c. 1,5 km a NE di Khao Sai On), sito di ca. 1,5 ettari tra un’ampia area coltivata e un residuo di foresta tropicale attraversato da un fosso torrentizio, è stata scavata (2006-2008) un’area di 156,25 m2, interessata da un solo strato archeologico formato da rifiuti derivanti da attività abitative e dalla riduzione e fusione di rocce cuprifere. Gli episodi di discarica sono caratterizzati da resti di vasellame domestico, mammalofauna, da frammenti di crogiuoli, fornaci, e forme di fusione in una matrice limo-argillosa mista a minuti frammenti di scoria e di roccia madre [Fig. 45].La natura abitativa di tale deposito risulta anche dal rinvenimento di fosse di palo relative a strutture sopraelevate di cui, però, non è stato possibile ricostruire la pianta [FIG 46]. Contemporanea all’abitato è l’area cimiteriale, che si estendeva nella porzione meridionale del sito, dove sono state rinvenute cinque tombe (G1-5). Di queste, quattro erano caratterizzate da inumazione su “letto di cocci” [FIG. 47], tipica dell’Età del ferro, consistente nella frantumazione rituale, all’interno della fossa d’inumazione, di una parte dei vasi di accompagnamento, sui quali era poi deposto il corpo assieme alla parte restante del corredo.
I corredi, composti da pochi vasi, perline di corniola e di vetro, rari manufatti di rame/bronzo e, in un solo caso, da un disco ricavato dal carapace di tartaruga, probabilimente un simbolo di status, hanno permesso di datare la necropoli tra il sec. II-I a.C. e il sec. III-IV d.C.
Di particolare importanza è stato il rinvenimento delle tombe G2 e G6. La prima, una sepoltura di individuo adulto, assieme a un vaso di ceramica, a due perle di corniola e a una di vetro, era accompagnata dal già menzionato “collare forato” di terracotta spezzato in cinque parti distribuite intorno all’inumato. Questo oggetto (il secondo fino a oggi rinvenuto in Thailandia) è chiaramente un “attrezzo del mestiere” e, quindi, è difficile non pensare che l’inumato non fosse uno specialista fonditore. La seconda tomba (G6), una sepoltura di neonato rinvenuta nell’area dell’abitato, ha restituito un corredo composto da una collana di piccole perle di corniola sferiche, una cavigliera di conchiglia con pendenti “a barilotto”, tre contenitori ceramici e nove valve di forme di fusione di terracotta del tipo “a conchiglia” [FIG. 49].
Sia i vasi, sia le forme di fusione presentano rotture e tracce di riparazione e riutilizzazione precedenti alla deposizione; le forme di fusione, poi, non hanno lo stesso profilo e non sono utilizzabili in coppie. Questi ritrovamenti hanno permesso di accertare la contemporaneità sia dei diversi tipi esemplificati dalle matrici, sia tra queste e il “collare forato” di terracotta che accompagnava la tomba G2 assieme a un vaso di ceramica, a due perle di corniola e a una di vetro [FIG. 43]. L’associazione, in strato, tra frammenti di “collari” di questo tipo, frammenti di crogiuolo e frammenti informi di terracotta coperti di scoria -forse resti del rivestimento di ‘forni a crogiolo’ [FIG. 42]- fa ipotizzare che i minatori/fonditori del luogo, verosimilmente stagionali, praticassero la riduzione del rame per co-fusione di ossidi e carbonati di rame disponibili localmente.
Di particolare importanza, come si è detto, è stato il rinvenimento della tomba G2, identificabile come la sepoltura di un fonditore (o founder’s burial). Quest’ultima, insieme alla sepoltura di neonato (G6) con corredo ‘metallurgico’ (le 9 valve di forme di fusione “a conchiglia”), forniscono una ulteriore conferma delle attività di sfruttamento delle locali vene di rame insieme a quelle di riduzione e fusione di rocce cuprifere svolte da piccole comunità non specializzate, con ogni probabilità a livello familiare e stagionale, nell’area del distretto metallurgico di Khao Sai On tra la fine del I millennio a.C. e la prima metà del I millennio d.C. [FIG. 50].
6. Indagini diagnostiche e interventi conservativi
L’archeologia non è solo avventura e scoperte. Il nostro lavoro sarebbe inutile se non rendessimo comprensibili a tutti, e godibili da tutti, le nostre scoperte. Studiare, tutelare e conservare i manufatti rinvenuti sono dunque tra i doveri principali dell’archeologo. Lo studio dei manufatti rinvenuti e la loro corretta conservazione sono stati quindi tra i principali obiettivi del Lo.R.A.P. nel corso degli ultimi due decenni e di cui diamo di seguito una brevissima sintesi [FIG. 51].
Indagini diagnostiche
1992-1995. Studio delle tecniche di decorazione e di finitura di superficie di vasi fittili di Età neolitica e dell’Età del bronzo (1800-500 a.C.) attraverso metodiche di microscopia, radiografia e replicazione sperimentale (dott.ssa Fiorella Rispoli).
1993 Nell’ambito della collaborazione con il progetto Thai-Americano “Thailand Archaeometallurgy Project-T.A.P.” (University of Pennsylvania-Thai DFA) sono state effettuate analisi quali-quantitative con metodica PIXE da campioni di manufatti di bronzo provenienti dal sito di Tha Kae (Dr. Vincent C. Pigott).
2000-2001. Indagini diagnostiche e archeometriche su ceramiche Neolitiche e dell’Età del bronzo (1800-500 a.C.) dagli scavi Lo.R.A.P. e T.A.P. nella regione di Lopburi in collaborazione con l’Istituto di Radiologia del Policlinico Universitario ‘A. Gemelli’ attraverso radiografia (Rx), xeroradiografia e di radiografia digitale a luminescenza fotostimolata (F. Rispoli ) [FIG. 52].
2001-2002. Analisi qualitative e semi-quantitative di campioni da manufatti di bronzo da Tha Kae e Phu Noi attraverso metallografia ottica, fluorescenza X dispersiva in energia (EDXRF), microdurezza Vickers (dott. Stefano Ridolfi-Ars Mensurae e dott. Pino Guida-ISCR).
2003-2004. Caratterizzazione mineralogica degli impasti di vasellame preistorico dagli scavi del Lo.R.A.P. e del T.A.P. con tecnica di Diffrazione dei raggi-X (XRD), (F. Rispoli-ricercatore principale – IsIAO, C. Seccaroni, P. Molaioli e A. Tognacci – ENEA-CNR Casaccia).
2004. Analisi quali-quantitative al SEM-microsonda Edax di perle di vetro da Tha Kae in collaborazione con il Servizio di Microscopia Ottica e Elettronica del M.N.A.O. diretto dal dott. L. Costantini [FIG. 53].
Interventi conservativi
2000. Restauro/conservazione di 70 manufatti di terracotta, di rame/bronzo e di ferro da Tha Kae presso il “Museo Nazionale del Palazzo di Re Narai” di Lopburi (restauratore principale G. Cragnotti).
2002. Restauro/conservazione di 80 manufatti di terracotta, di rame/bronzo e di ferro da Phu Noi presso il “Museo Nazionale del Palazzo di Re Narai” di Lopburi (restauratore principale G. Cragnotti).
2003-2006. Restauro/conservazione di 22 vasi fittili neolitici presso il Centro Scavi e Ricerche Archeologiche in Asia (IsIAO) con il contributo del Museo Nazionale d’Arte Orientale ‘G. Tucci’ (restauratore principale L. Sforzini) [FIG. 54].
2004. Indagini diagnostiche e ricerca sperimentale (condotta da L. Sforzini) su diversi metodi conservativi su 10 manufatti di piombo di periodo Dvaravati (sec. VII-X) da Tha Kae presso l’ISCR [FIG. 55].
2005, 2007. Restauro/conservazione di 50 manufatti di terracotta, di osso, di rame/bronzo e di ferro da Tha Kae, Phu Noi e KSO-Noen Din presso il “Museo Nazionale del Palazzo di Re Narai” di Lopburi (restauratore principale L. Sforzini). [FIG. 56-FIG. 57].
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