Il Buddhismo inizia a diffondersi in Tibet dall’India a cominciare dal sec. VII d.C., dopo quasi un millennio dalla predicazione di Shakyamuni, il Buddha storico. In tutti questi secoli la ‘dottrina del Buddha’ (buddhadharma) ha avuto ampio agio di elaborare una serie di esiti scritturali e rituali che trovano nel vajrayana (il ‘veicolo della folgore adamantina’) la loro espressione più compiuta. Dal punto di vista del processo di inculturazione, i tibetani ritengono di non avere apportato innovazioni in materia di dottrina. Per i Lama (bLa.Ma, ‘superiore’) non c’è infatti uno solo degli sviluppi ideologici e formali tibetani che non si trovasse almeno in germe nel dharma, la dottrina spirituale trasmessa dai pandit, ovvero dai maestri indiani. Assecondando una tale impostazione, sarebbe possibile constatare per l’arte himalayana un singolare fenomeno di permanenza – da riferire ai simboli del sacro – paragonabile a quanto avviene nel mondo fisico alle radiazioni solari, che si accumulano in una serra elevandone la temperatura ambientale. Tale ‘effetto serra’ in relazione allo sviluppo ed al mantenimento di tradizioni spirituali in ambito indo-tibetano è senz’altro agevolato dalla posizione geografica favorevole agli scambi culturali (il Tibet viene infatti spesse volte definito ‘cuore dell’Asia’), ma al contempo ad essi sfavorevole a causa dell’altezza media del territorio ed alle spesso avverse condizioni climatiche. Secondo l’interpretazione che qui si sta proponendo, un ‘segnale’ (un concetto filosofico, oppure un tema artistico) incontrerà una certa resistenza in fase di inculturazione; ma, una volta accettato ed inserito nel contesto pertinente, il significato di tale segnale avrà l’agio di trasmettere i propri contenuti per un lungo periodo posteriore al proprio apparire con un numero tendenzialmente minimo di mutazioni. Il Buddhismo indiano ha quindi potuto modificarsi contingentemente ai gusti e alle esigenze della popolazione interagendo con le tradizioni locali, ma la sua iconografia, come pure i suoi complessi sistemi speculativi, ha continuato a trasmettere fedelmente il proprio senso profondo negli altopiani himalayani. Questa coerenza della tradizione tibetana rispetto alle origini indiane del mahayana-vajrayana, oltre che a motivi di carattere specificamente storico, è probabilmente dovuta anche alla sensibilità particolare di un popolo sottoposto più di altri al vaglio della necessità della sopravvivenza, selezionato duramente dalla realtà ambientale. Giuseppe Tucci ha scritto pagine stupende per descrivere i fattori limite caratteristici del processo di antropizzazione degli altopiani tibetani, quali la distanza, la solitudine, le vertiginose altezze.