Nella tradizione vajrayana del Buddhismo mahayana la buddhità nonché il cammino verso di essa possono essere descritti tramite la formalizzazione geometrica di un impianto architettonico. Il mandala viene perciò proposto quale rappresentazione ideale in forma grafica dei rapporti esistenti tra l’universo e la mente dell’uomo. Il mandala può anche definirsi il mondo dell’essere, presieduto dalla verità; il bhavachakra (la pittografia pure ad andamento circolare rappresentante la ‘ruota delle rinascite) è di contro il mondo del divenire, il samsara divorato dall’oblio rappresentato da Yama, il dio dei morti nella cosmologia buddhistica.

Nella lingua sanscrita esistono più significati per il termine mandala (lett. ‘cerchio o ‘circonferenza’). Questo termine potrà significare il capitolo di un testo sacro (ad es. il celebre decimo mandala del Rig Veda), oppure la sfera di influenza politica esercitata da una struttura di potere. È nella sua accezione religiosa che il termine mandala viene a definire un diagramma in cui vengono descritti e stabiliti i nessi sottili tra l’uomo e l’universo. Nel mandala interpretato secondo quest’ultima accezione vengono riassunte così efficacemente le principali concezioni cosmologiche e psicologiche buddhistiche che Giuseppe Tucci, grande figura di orientalista, padre della tibetologia contemporanea, ebbe a darne la definizione, divenuta oramai classica, di ‘psicocosmogramma’, in quanto in questo sacro diagramma è appunto rappresentata in forma sintetica la serie di nessi e ‘legami’ che fanno della realtà, apparentemente frammentata negli innumerevoli elementi che la compongono, un tutto organico e coerente fin nella sue parti più infinitesimali.

Sotto il profilo della rappresentazione formale il mandala è la proiezione su di un piano bidimensionale di un palazzo a pianta quadrata inscritto all’interno e al centro di una serie di barriere circolari.

Iniziando dall’esterno, tali barriere potranno presentare una sequenza nella quale si enumera una prima cerchia, la più esterna, fatta idealmente di fiamme intese a tenere lontani i profani, coloro i quali non sono ancora maturi ad affrontare la peregrinazione spirituale verso il ‘risveglio’ (bodhi) che, simbolicamente, è racchiuso nella serie di percorsi e di corrispondenze delle quali il mandala è letteralmente saturo; è la barriera di fuoco che respinge chi non sia ancora ‘adatto’ (adeptus) ad essere avviato alle complesse liturgie proprie del veicolo segreto del Buddhismo.

Segue una barriera di vajra, le ‘folgori adamantine’ per le quali si compendia l’immodificabile natura della mente e le sue principali valenze emancipatorie, definite ‘metodo’ (upaya) e ‘saggezza’ (prajna); barriera impenetrabile per chi, pur avendo osato superare il cerchio di fuoco, non abbia ancora purificato la volontà. Questa barriera di vajra rappresenta la concretezza del piano assoluto della realtà, il piano ove gli adepti del vajrayana divenendo ‘esseri adamantini’ (vajrasattva) riescono ad esprimere il potere necessario ad intraprendere in modo positivo le liturgie del veicolo esoterico.

La terza barriera, quella ‘composta da petali di fiori di loto’ (padmavali), rappresenta la purezza della sensibilità emozionale, la giusta disposizione da suscitare nel cuore di chi si stia accostando al proprio centro ineffabile.

Si è giunti a questo punto nel mandala vero e proprio concepito come un divino palazzo e spesse volte disposto su più livelli attraversabili in sequenza attraverso elaborati portali. Ogni elemento di un mandala è la rappresentazione degli aspetti della divinità risiedente al centro.

Ogni porzione di un mandala ha il suo preciso significato.

I suoi quattro lati rappresentano le Quattro Nobili Verità: la ‘sofferenza’ (dukha), l’‘origine’ (samudaya) della sofferenza, la ‘cessazione’ (niroda) della sofferenza e il ‘sentiero’ (marga) che conduce alla cessazione della sofferenza. Il fatto poi che i quattro lati siano uguali sta a significare l’identità, sul piano assoluto, degli esseri risvegliati con quelli non risvegliati.

La porta orientale rappresenta le quattro attenzioni pure: al corpo, alle sensazioni, al pensiero, ai fenomeni. La porta meridionale le quattro occasioni di superamento: donare, parlare gentilmente, dare soccorso, essere coerenti nelle azioni rispetto alla parola data. La porta occidentale le quattro membra delle manifestazioni miracolose: puro desiderio d’essere, vigore, intelletto, indagine. La porta settentrionale le cinque facoltà: fede, vigore, consapevolezza, concentrazione, saggezza.

I quattro archi rimandano alle quattro stabilizzazioni meditative. Le quattro cornici che bordano la base delle mura sono le quattro conoscenze discriminanti: dei significati, dei fenomeni, dei linguaggi, della pronta risposta. La decorazione di pietre preziose appaga i desideri degli esseri. Le ghirlande che pendono dalle travi significano il superamento degli ostacoli e delle loro impronte al momento di intraprendere il sentiero della meditazione.

Un mandala può essere rappresentato con una pittura, una scultura, per mezzo di pietre preziose, fiori, riso, pietre o sabbie colorate; può finalmente essere ricreato all’interno della propria mente per trasformarne attivamente i processi. La sabbia è considerata tra i materiali grossolani il più efficace poichè tradizionalmente è tratta da sostanze preziose e necessita di un’estrema attenzione per l’esecuzione dei dettagli del mandala.

Ci possono essere numerosissime divinità in un mandala a simboleggiare le varie manifestazioni degli aspetti della coscienza e del cosmo trasfigurati dalla sapienza trascendente personificata dal nume che risiede al centro del mandala in unione con la propria mistica consorte, personificazione femminile della Saggezza. Il palazzo è diviso in quadranti provvisti di mura e gallerie. I colori sono la specifica rappresentazione degli ‘elementi grossolani’ (mahabhuta) di cui si compone la realtà fenomenica e degli ‘aggregati sottili’ (skanda) sui quali la mente imputa l’esistenza nominale di un ‘io’ convenzionalmente esistente.

Sebbene prodotto su di una superficie piatta, il mandala è in realtà sempre da visualizzarsi nel suo sviluppo tridimensionale, essendo la divina dimora al centro della quale un buddha può manifestare lo stato del Risveglio verso tutte le direzioni dello spazio.

La forma del mandala potrebbe essere ricondotta allo schema del palazzo di un Monarca Universale (chakravartin), concetto riconducibile a sua volta alla formalizzazione dell’ideale urbano iranico. La reggia del monarca indiano, come quella del monarca babilonese, si richiama al modello delle piramidi a gradoni sormontate da un tempio. Il Monarca Universale vi deve risiedere in quanto, come re degli dei, egli deve vivere sulla sommità della montagna cosmica, simboleggiante l’integrazione dell’ordine politico con quello religioso, l’unione indissolubile del cielo e della terra: «quod est inferius est sicut quod est superius» (Pseudo Ermete, Tabula Smaragdina).

Secondo la descrizione che ne dà il Canone in lingua pali nel Dighanikaya, una tale residenza è circondata da sette muraglie fatte d’oro, argento, berillo, cristallo, rubino, corallo e da vari gioielli. Nella regola dell’ordine monastico mulasarvastivadin il palazzo presenta sette recinti, fatti però solo di quattro materiali preziosi: oro, argento, berillo e cristallo.

Inevitabilmente la lettura di queste descrizioni riecheggia l’ultimo, in ordine di redazione, dei testi sacri del Cristianesimo; nell’Apocalisse (21, 16-21) di Giovanni di Patmos si trova la seguente interessante descrizione del Regno di Dio tra gli uomini: «La città è a forma di quadrato […] le mura sono costruite con diaspro e la città è di oro puro, simile a terso cristallo. Le fondamenta delle mura della città sono adorne d’ogni specie di pietre preziose. Il primo fondamento è di diaspro, il secondo di zaffiro, il terzo di calcedonio, il quarto di smeraldo, sardonice, cornalina, crisolito, berillo, topazio, crisopazio, giacinto e ametista».

Agli effetti della pratica liturgico-iniziatica da compiersi all’interno di ‘un’ mandala (se nella teoria si danno infiniti mandala, nell’arte se ne ritrova la raffigurazione di qualche centinaio) è necessario avere una chiara cognizione di se stessi quale divinità ed assumere il corrispondente ‘orgoglio divino’ (devamana). In un tale processo le apparenze ordinarie, visibili dagli occhi della carne, non vengono negate; piuttosto, non permettendo ai fenomeni ordinari di apparire alla consapevolezza mentale si fa in modo che le divine apparenze brillino più forti. Quando, avendo interrotto le apparenze ordinarie e sviluppato il chiaro apparire di se stessi come una divinità, tale apparenza spirituale diviene finalmente stabile, le apparenze ordinarie degli aggregati fisici e mentali infine cessano. È allora che appaiono all’occhio della mente i divini aggregati fisici e mentali, i divini costituenti e sensi.

Nel Buddhismo tibetano i mandala vengono creati per i rituali d’iniziazione nei quali un maestro concede il permesso, ai discepoli ritenuti maturi, di impegnarsi nelle meditazioni relative a particolari divinità archetipiche. Il ‘germe di buddha’ (tathagatagarbha) presente nel continuum mentale d’ogni essere senziente viene nutrito dal processo di visualizzazione e contemplazione di questo mistico diagramma.

La resa formale, artistica, di tutto questo processo avviene in virtù di un sofisticato linguaggio simbolico che impiega, per la propria articolazione, una serie di codici presenti sincronicamente nella stessa immagine. Vi è pertanto un codice che si avvale della dislocazione spaziale dei vari elementi figurativi (siano essi geometrici o meno), così come un codice cromatico, un codice sonoro, un codice che definiremo ‘teurgico’, nel senso che anche le varie divinità, raffigurate con minore o maggiore realismo antropomorfico, sono a loro volta lemmi di una super-struttura sintattica finalizzata ad essere supporto sensibile alla pratica spirituale.