Nel corso della sua lunga storia, il buddhadharma (la ‘dottrina spirituale del risvegliato’) è andato differenziandosi al suo interno in una scuola detta in passato, dalla critica occidentale, ‘del sud’ (in quanto ancora oggi presente in prevalenza nello Sri Lanka e nell’Asia sudorientale) e una scuola detta ‘del nord’ (diffusa maggiormente nelle zone himalayane, in Tibet, Cina, Corea, Giappone, nonché in altre parti dell’Asia).
I termini propri spettanti a queste due tradizioni, per usare la terminologia della ‘scuola del nord’, sono mahayana e hinayana, ovvero il ‘grande veicolo’ e il ‘piccolo veicolo’. La parola ‘veicolo’ ben si adatta a esprimere l’idea del ‘mezzo’ che diverrà superfluo una volta raggiunta la meta della buddhità, ma fino a quel momento da ritenersi strumento indispensabile per trascendere il mondo delle rinascite o samsara.
La scuola storicamente più simile a quella definita, in linea teorica e in senso riduttivo, dal mahayana come hinayana si riferisce a se stessa usando altri termini, tra cui theravada (la ‘dottrina degli anziani’). Il mahayana elegge quale parametro di santità la figura del bodhisattva (l’‘eroe del risveglio’) che, motivato dall’ideale altruistico del bodhicitta (il ‘pensiero del risveglio’), continua a reincarnarsi finché tutti gli esseri non siano stati salvati. La scuola theravada propone alla devozione ed emulazione dei fedeli anche l’arhat (il ‘distruttore del nemico’). Questi si sforza di raggiungere il nirvana, l’estinzione delle rinascite, tramite il progressivo annullamento delle ‘emozioni dissonanti’ (klesa) che costringono gli esseri a sperimentare, senza possibilità di scelta, gli ambiti esistenziali che costituiscono il samsara: inferni, spiriti famelici, animali, esseri umani, semidei e divinità mondane. Si tratta di sei contesti percettivi posti in essere non dalla libera volontà, ma dal karma, l’implacabile legge di causa-effetto alla quale il dharma è contrapposto quale unico antidoto efficace.
Il buddhadharma si presenta all’inizio della sua storia come una dottrina che propone ai propri seguaci uno stile di vita ben preciso, essendo possibile seguirla solo a costo di rinunce riguardanti il sistema sociale. È difatti ad una scelta di vita radicale che il Buddha chiama il ‘monaco mendicante’ (bhikshu). Poiché nel buddhadharma vi è un certo primato del monaco rispetto al laico, sembrerebbe assai difficile per quest’ultimo una pratica del dharma che possa avere la stessa efficacia di quella compiuta dal suo fratello ricoperto dalla veste monacale. Ma gli sforzi storicamente compiuti per estendere a chiunque la possibilità della pratica della virtù, anche se pur sempre su diversi livelli d’efficacia, determinarono l’opportunità di definire un sentiero laico, uno stile esistenziale cui uniformarsi senza dovere necessariamente rinunciare alle necessità del contingente.
Circa venti secoli fa, si compì nel subcontinente indiano quest’apertura alle folle che, pur rimanendo laiche, desideravano in cuor loro aderire alla ‘dottrina del risveglio’. Il Buddhismo non fece allora altro che perfezionare quella vocazione all’inclusività, così presente nell’insegnamento del fondatore, che la determina – prima tra tutte le religioni moderne – universale.
La distinzione tra monaco e laico è rimasta comunque una costante in quelle società dove il Buddhismo si è diffuso, ma nella scuola detta vajrayana, il ‘veicolo della folgore adamantina’ che ha particolare diffusione in Tibet, anche al laico è dato accesso ad una vasta quanto complessa liturgia operativa che può addirittura prescindere dalla condizione monastica.