Il contributo delle civiltà d’Asia alla matematica europea
Come la distinzione tra ente ed essenza si pone a fondamento del sistema tomistico, shunyata è la chiave di volta dell’architettura speculativa buddhistica. Il tema radicale shunya (da cui shunyata) è difatti il termine chiave del metodo logico-metafisico del buddhadharma (la “Dottrina del Risvegliato”, termine che andrebbe preferito al neologismo occidentale “Buddhismo”). Come la cifra “zero” non significa più come al tempo dei sumeri (che pure avevano per esso una notazione in cuneiforme) il mero nulla, vale a dire il niente tout court, shunyata definisce la modalità ultima d’esistenza dei fenomeni, non la negazione dell’essere dunque, bensì solo di quelle modalità che – sottoposte all’analisi filosofica – si rivelano essere illusorie, accidentali, transitorie, non sostanziali.
Sia il lemma “zero” che il lemma “cifra”, da me evocati, derivano dalla parola araba sefr, e certamente la civiltà arabo islamica ha giocato un ruolo d’assoluto rilievo per la proposizione, o talvolta la riproposizione (tale il caso per una parte della filosofia greca), al contesto mediterraneo di temi di grande portata scientifica, dalla medicina all’ottica, così come la matematica, sia in funzione di ponte culturale (vedi appunto il caso dei numeri indiani) che di generatore di temi originali.
Abu Ja‘far Muhammad ibn Musa al-Khwarizmi (780–850 ca.), pur nativo della regione centroasiatica del Khwarezm (l’antica Corasmia), visse a Baghdad venendo lì nominato dal califfo al-Ma’mun responsabile della biblioteca; sotto la sua direzione le attività della biblioteca si rivolsero anche alla traduzione in arabo delle principali opere matematiche del periodo greco-ellenistico, della Persia preislamica, di Babilonia e dell’India. È l’autore dell’al-Kitab al-mukhtaṣar fi ḥisab al-jabr wa al-muqabala, trattato che venne “scoperto” nel XII sec. in Spagna dal matematico inglese Roberto di Chester che ne tradusse una parte in latino con il titolo Liber algebrae et almucabala, dove “algebrae” è latinizzazione di al-jabr, lemma dal quale deriva “algebra” (laddove da “al-Khwarizmi”, in cui compare il toponimo della regione di provenienza dell’autore, deriverà “algoritmo”). La prima traduzione completa dell’importante trattato fu opera dell’italiano Gerardo da Cremona (1114–1187).
Fibonacci (filius Bonacci) nel suo Liber abaci, così importante per la scienza computazionale europea, scienza che porterà a definire gli strumenti a sostegno del metodo sperimentale, vale a dire della scienza come noi oggi la concepiamo, si riferiva a sefr con il lemma zephirum:
«Le nove cifre degli indiani sono queste: 9 8 7 6 5 4 3 2 1. Con queste nove cifre, e con questo simbolo: 0, che in arabo si chiama zephir, si può scrivere qualsiasi numero, come si vedrà più avanti.» (Leonardo Fibonacci, Liber abaci, I incipit).
Fibonacci (nato intorno al 1170 a Pisa, porto strategico per gli scambi commerciali nel mediterraneo), in giovane età segue il padre nominato funzionario doganale in un porto algerino; è lì che entra in contatto con la cultura araba. Rientrato in Italia pubblica nel 1202 la sua opera guadagnandosi in seguito finanche l’interesse di Federico II. La storia degli studi matematici continua poi in Italia innanzitutto con Luca Pacioli (1445 ca.–1517), i numeri da definire a questo punto indo-arabi giungendo ad affermarsi in Europa nel XVI sec..
Grande, importante ed ininterrotta è in India la tradizione della disciplina matematica, da Aryabhata (matematico e astronomo del V sec. EC) al forse più noto agli occidentali Subrahmanyan Chandrasekhar (1910-1995), passando da Brahmagupta (VII sec. EC) ritenuto appunto l’“inventore” dello zero matematico, concetto molto probabilmente già noto in India dal II sec. dell’EC.
Caratteristica della civiltà indiana è infatti una particolare consuetudine con il sistema numerico, sia per la definizione puntuale di quantità per noi non solo difficilmente immaginabili (i periodi cosmici vengono definiti kalpa, mahakalpa, manvantara della durata di multipli di 380 milioni anni), ma non puntualmente nominati, laddove al massimo giungiamo a definire il “triliardo”; solo di recente l’informatica, ma non possiamo anche qui escludere l’influsso più o meno consapevole di attitudini computazionali “orientali”, è giunta alla definizione di potenze numerali per esprimere quantità digitali che, almeno per ora, culminano nello yottabyte, 1024 e – come prefisso binario – nello yobibyte, 280.
Nella più parte delle lingue parlate nel subcontinente si assegna inoltre ad ogni numero della serie nella numerazione da 1 a 100 un “nome proprio”, laddove noi, dopo il 20, non lo facciamo più (venti uno, venti due ecc.), sistema certamente più semplice rispetto allo sforzo mnemonico nel quale devono impegnarsi fin dalla più tenera età nell’attuale India e nelle nazioni limitrofe.
Termino questo mio breve intervento citando Alcide De Gasperi che nell’articolo “La Piccola Europa” (Giornale D’Italia, 25 Luglio 1958) così affermava:
«[…] il mondo arabo è lontano e vicinissimo all’Europa; la nuova Europa che non potrà sviluppare la propria personalità senza tenere conto del mondo spiritualmente e storicamente diverso che è nel Sud che bagna le sponde del Mediterraneo, dove ancora oggi, e con notevole effetto, si sentono gli echi di Atene e di Roma, di Siracusa e di Cartagine, di Tessalonica, Alessandria, Cesarea, Bisanzio, Gerusalemme. Gli ignoranti possono sorridere a queste evocazioni, ma le persone sensate sanno che l’Europa venne dall’Ellesponto e non potrà mai fare a meno delle porte di entrata: Bosforo, Suez, Gibilterra; la piccola Europa, oggi o domani non importa, chiamerà la grande Europa, e questa batterà alle tre porte non come a proprie serrature di clausura, ma come a veicoli di civiltà.».