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Maria Thereza Alves Non sono d’accordo / I Don’t Agree

Testo di presentazione del progetto

Durante una delle prime visite di Maria Thereza Alves al Museo delle Civiltà, dopo l’invito nella primavera del 2022 a far parte del nuovo gruppo degli artisti-ricercatori invitati dal museo, rimase turbata nel constatare che in alcune delle vetrine delle Collezioni di Arti e Culture Americane fossero ancora esposte teste Shuar mummificate ed altri resti umani. L’artista concordò in quell’occasione di farli ricoverare nelle camere climatiche dei depositi. Con quel gesto di rispetto, Alves volle collaborare a interrompere l’ostensione di corpi sottratti dai loro sepolcri originali per essere sottoposti alla supposta neutralità scientifica di una vetrina museale, a migliaia di chilometri dal loro luogo di origine. L’artista diede così avvio ad un doppio dialogo: da un lato con i suoi contatti di lungo termine all’interno delle comunità indigene in Brasile – per metterli a conoscenza degli oggetti presenti al Museo – e dall’altro con le Funzionarie e i Funzionari del Museo per ripensare insieme a loro nuovi possibili allestimenti che comprendessero le sollecitazioni ricevute dalle comunità indigene dai cui contesti provengono gli oggetti in collezione. Origina da queste visite e questi scambi l’intenzione di segnalare, in attesa dei riallestimenti che avverranno nel corso del 2024, ciò con cui l’artista sente di non essere d’accordo rispetto agli allestimenti attuali, perché risultato di pregiudizi pregressi o non informate rispetto alla realtà storica emersa negli ultimi decenni di studi. Analizzando i testi a parete presenti nell’allestimento esistente (realizzato in tre fasi dal 2000 al 2008), si notano una serie di nozioni stereotipate che rivelano quanto, nelle informazioni fornite ai visitatori, sia sostanzialmente ancora assente la voce dei soggetti la cui cultura materiale e immateriale è esposta nel museo, perpetrando quindi un racconto che è di fatto espressione di un’interpretazione museografica occidentale. All’ingresso del percorso, ad esempio, campeggia la frase “1492: l’Europa scopre l’America” che ribadisce la convinzione che i territori americani siano stati scoperti dagli europei, negando la millenaria storia delle popolazioni indigene che già li abitavano.

A questo proposito, nel libro Giungle. Come le foreste tropicali hanno dato forma al mondo e a noi, Patrick Robert, archeologo e ricercatore del Max Planck Institute di Monaco di Baviera, scrive: “Sempre più attivisti e istituzioni indigene stanno chiedendo che le occasioni celebrative verso Cristoforo Colombo siano sostituite da celebrazione delle società indigene pre-coloniali, riconoscendo che l’impatto che le azioni degli esploratori europei hanno avuto sulle culture, popolazioni e paesaggi tropicali, non sono affatto motivo di festeggiamenti” [1]. Altri ricercatori in campo scientifico [2], che hanno studiato gli aspetti climatici di quel periodo storico, hanno affermato: “mentre l’Europa era nei primi giorni del suo Rinascimento, c’erano imperi nelle Americhe nei quali prosperavano più di 60 milioni di persone. Ma il primo contatto europeo nel 1492 portò malattie nelle Americhe che devastarono la popolazione nativa, e il conseguente crollo dell’agricoltura nelle Americhe fu così significativo che potrebbe aver persino raffreddato il clima globale”. Le più recenti ricerche attestano infatti che il 90% delle popolazioni indigene delle aree tropicali fu spazzata via nei 150 anni successivi al 1492, a causa di ripetute ondate di malattie e stermini organizzati. Già nel 1552 nel testo Brevissima relazione della distruzione delle Indie Bartolomé de Las Casas – prete dominicano spagnolo che partecipò alla colonizzazione di Cuba – racconta: “Per quanto riguarda il vasto continente, che è dieci volte più grande di tutta la Spagna, compresi Aragona e Portogallo, che contiene più terra della distanza tra Siviglia e Gerusalemme, o più di duemila leghe, siamo sicuri che i nostri spagnoli, con i loro atti crudeli e abominevoli, hanno devastato la terra e sterminato il popolo razionale che lo abitava pienamente. Possiamo stimare con certezza e verità che nei quarant’anni trascorsi […] sono stati ingiustamente uccisi più di dodici milioni di uomini, donne e bambini. In verità, credo senza cercare di ingannare me stesso che il numero degli uccisi sia più di quindici milioni.” [3]

Sempre nella prima stanza del percorso si trova una mappa che riporta le molteplici scoperte e conquiste di Colombo e dei suoi epigoni, ma manca l’indicazione delle conseguenze di tali azioni, raccontate come se quei territori fossero una terra nullius disabitata. Uccisioni di massa ed estrazione di risorse, distruzione di sistemi di scrittura e agricoli sono alcune di queste conseguenze, così come l’interruzione della trasmissione dei saperi, intrinsecamente connessa alla disinformazione attuale su di essi. Nel caso del Messico, ad esempio, quasi tutti i manoscritti sono stati deliberatamente distrutti e i pochi sopravvissuti fra di essi si trovano quasi tutti in istituzioni europee, come il cosiddetto Codex Borgia. Risalente al XVI secolo, dal contenuto calendrico e rituale, il codice porta il nome del cardinale italiano che lo possedette fino alla sua morte, nel 1804, quando passò alla Biblioteca Vaticana a Roma. Testo centrale per la conoscenza di cultura rituale, divinazione, calendario, religione e iconografia, la sua appartenenza non è chiara: potrebbe essere stato prodotto dal popolo Tlaxcaltec di lingua Nahuatl, dal popolo Cholulteca, oppure da quello Mixtec. In relazione a questa cancellazione progressiva delle conoscenze indigene, Sandra Benites, appartenente alla cultura Guaraní Ñandeva, scrive circa l’importanza delle pratiche artistiche contemporanee nel riattivare i saperi perduti: “Fu fondamentale la registrazione fatta dai Djuruá della memoria indigena e dei modi indigeni di raccontare storie, che si sono riflessi nel grande serpente disegnato dall’artista indigeno contemporaneo Denilson Baniwa. In questi scambi è stato fondamentale avere la sensibilità per permettere all’altro di continuare ad essere altro, non abbracciandolo perché la pensa allo stesso modo. Ciò significherebbe continuare la colonizzazione. È necessario trovare un bilanciamento tra i pensieri di tutti, includendo sempre e accettando la sensazione di estraneità che può arrivare”. [4]

Se circondati da oggetti decontestualizzati dalle loro funzioni, ambiti culturali e linguistici, e allontanati dai loro contesti originari, l’esperienza di questi oggetti in un’istituzione come il Museo delle Civiltà può quindi indurre lo spettatore a pensare che la conoscenza delle culture indigene e la loro complessità possa concludersi nello spazio circoscritto dalle vetrine museali. In questo senso è importante ricordare che ciò che noi occidentali spesso percepiamo come oggetti appartenenti ad una cosiddetta cultura materiale o immateriale, pensata storicamente entro una pratica di studi etnografici, sono in prima istanza soggetti che facevano e fanno parte di una vita sociale articolata e appartenente ad epistemologie non occidentali. Il ricercatore brasiliano Rosalvo Ivarra Ortiz (anche lui della comunità Guaraní Ñandeva) nel suo libro Cultura materiale e cosmologia Guaraní nel Mato Grosso del Sud scrive: “gli oggetti sacri Guaraní in musei o mostre molto probabilmente cominciano a soffrire di nostalgia, della loro vita sociale, dai loro compagni, delle conversazioni, delle danze rituali di cui facevano parte inizialmente. Dal dialogo con i vari leader, ci rendiamo conto che certamente, sentendosi soli, gli oggetti cominciano a sentire la pressione degli sguardi estranei, di persone che non parlano la loro lingua, che non li capiscono, non sono amici, non c’è comunicazione o comprensione in questo processo” [5]. Alves ha osservato per esempio che, nel mostrare prevalentemente cesti di fibre vegetali intrecciate nella vetrina dedicata ai Guaraní, non si fa menzione di come si sia arrivati a prediligere quel materiale. Non si parla ancora nelle didascalie di come il genocidio compiuto nei confronti di questo popolo (che abita la regione brasiliana del Mato Grosso del Sud, al confine del Paraguay, ancora oggi sotto attacco del disboscamento massivo per l’industria alimentare mondiale) abbia prodotto un progressivo abbandono della ceramica, poiché difficile da trasportare quando si è forzatamente costretti a fuggire. Se guardiamo adesso ad una delle vetrine dove si tematizza la violenza dei sacrifici umani compiuti dagli Aztechi, descritti come brutali assassini, notiamo come manchi ancora nelle didascalie la spiegazione del rito del sacrificio come sostanzialmente connesso ad un contesto socio-culturale e religioso. Perché invece, nota Alves, questi sacrifici non sono messi in relazione o comparati con le morti che a Roma venivano spettacolarizzate nel Colosseo? Il rapporto con la morte nelle culture antiche andrebbe sempre contestualizzato, e non trasformato in un elemento che essenzializzi l’altro in una pratica, senza leggerla nel contesto più ampio a cui essa appartiene?

Un’ultima, ma non conclusiva, osservazione di Alves nel suo percorso attraverso gli allestimenti attuali del Museo delle Civiltà, è relativa all’assenza di un racconto che condivida l’importanza di storici leader e pensatori indigeni nel racconto generale che il Museo fa di queste culture. Uno tra tutti è Atahualpa (1497-1533), ultimo capo Tahuantinsuyo (l’insieme dei territori dominati dalla monarchia Inca, in lingua Quechua). Catturato dal conquistador Francisco Pizarro a seguito della battaglia di Cajamarca, l’imperatore Inca chiese di poter essere liberato in cambio di un riscatto che il suo popolo pagò in oro e altri oggetti preziosi, per un ammontare di circa 1,5 miliardi di dollari in valuta corrente (si calcola che sia stato il più grande riscatto della storia). La promessa non fu però mantenuta e, dopo l’esecuzione di Atahualpa, l’imperatore europeo Carlo V riuscì ad annettere all’impero spagnolo anche i territori di Cile e Perù mentre, in quegli stessi anni, grazie ai soldi provenienti dal riscatto, l’impero spagnolo si espandeva anche in Nord Africa, con la conquista della Tunisia. È in questo senso che Alves esprime il bisogno di reinserire, nella nostra esperienza di visita al Museo delle Civiltà, il punto di vista delle comunità indigene dalle quali le collezioni museali provengono, ma anche il bisogno di raccordare un differente racconto del passato con l’attualità di un impegno in corso per la sopravvivenza e la salvaguardia degli ecosistemi indigeni e con il legame che queste rivendicazioni hanno con il passato coloniale.

Matteo Lucchetti (testo elaborato dai dialoghi dell’autore con Maria Thereza Alves)

[1] P. Robert, Giungle. Come le foreste tropicali hanno dato forma al mondo e a noi, Aboca edizioni, 2022
[2] A.Koch, C. Brierley, M. M. Maslin, S. L. Lewis, “Earth system impacts of the European arrival and Great Dying in the Americas after 1492”, in Quaternary Science Reviews, volume 207, 1 marzo 2019.
[3] B. De Las Casas, Brevissima relazione della distruzione delle Indie, Marsilio, 2012.
[4] S. Benites, Algunas perspectivas hacia el arte desde una visión Guaraní, “Concreta, numero 16, (autunno, 2020), pag. 28
[5] R. Ivarra Ortiz, Cultura materiale e cosmologia Guarani nel Mato Grosso do Sul, Brasile: Percorsi multipli, prospettive diverse e sguardi (in)conclusivi sul tempo, la storia e la memoria amerindia, Sapienza edizioni, 2023

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