L’Età del bronzo: non fu solo la diffusione e l’utilizzo di una lega di rame e stagno
I cambiamenti che avvengono durante l’Età del bronzo nella penisola italiana sono documentati anche per ampie porzioni del territorio europeo. Si tratta di una fase di grandi trasformazioni che possono aver avuto luogo in momenti diversi a seconda delle aree geografiche, e che in Italia possiamo inquadrare tra 2200 e 975 a.C. ca. Durante questo ampio arco temporale si verificò un significativo aumento quantitativo e qualitativo della produzione metallurgica, con il conseguente sviluppo di una più ampia rete europea di distribuzione.
Eppure, sebbene si tratti di un fattore essenziale per spiegare le trasformazioni economiche e sociali di queste comunità, non si può ridurre l’Età del bronzo alla diffusione e all’utilizzo della nuova lega metallica formata da rame e stagno, il bronzo appunto. È infatti possibile riconoscere altri tratti comuni e tendenze generali, avvenute nel corso di questi undici secoli: crescita demografica con conseguente aumento delle dimensioni degli abitati; deforestazione di ampie aree di territorio finalizzata alla messa a coltura o a pascolo delle terre; insediamenti con una continuità abitativa di centinaia di anni; un artigianato specializzato di carattere stabile legato alla produzione di specifiche categorie di oggetti; differenze sociali sempre più accentuate all’interno delle comunità, testimoniate dalla presenza di ricchi corredi funerari; allargamento della rete di scambi a lungo raggio connesso alla richiesta di oggetti di prestigio e di merci esotiche, che viene gestita dalle élite; passaggio a società gerarchicamente ordinate con territori sempre più stabili; aumento nella metallurgia della produzione sempre più diffusa di armi e utensili da lavoro.
Fase iniziale: palafitte ai piedi delle Alpi
In Italia settentrionale nelle fasi iniziali dell’Età del bronzo (2200–1600 a.C.) si svilupparono una serie di villaggi posizionati sulle rive dei laghi prealpini e nei bacini lacustri infra-morenici; a poco a poco furono poi occupati anche i territori fluviali e palustri della pianura, a nord del fiume Po.
Le abitazioni tipiche di queste aree erano le palafitte, capanne realizzate in legno, argilla e paglia su piattaforme lignee sostenute da pali infissi a fondo nel terreno; in alcuni casi erano edificate direttamente sull’acqua, in altri si trovavano sopraelevate su pali o lungo le rive. Si trattava quindi di costruzioni idonee all’edificazione in un terreno paludoso o in presenza d’acqua. I villaggi non erano di grandi dimensioni e venivano disposti a brevi distanze tra loro; gli abbandoni si verificavano frequentemente, forse a causa di incendi e crolli, e sono documentate rioccupazioni e piccoli spostamenti all’interno della stessa area occupata nelle fasi precedenti. La mole di informazioni ricavabili dai villaggi palafitticoli è enorme: all’interno di questi terreni composti da resti vegetali e carichi d’acqua (torbe), la conservazione dei materiali organici consente una conoscenza più approfondita sia delle attività artigianali (manufatti in osso, in legno, in fibre vegetali, tessuti) sia di informazioni naturalistiche (ricavabili da semi, pollini, fibre vegetali, faune) sull’ambiente circostante. Le attività agricole e il trasporto a trazione animale sono documentate dai rinvenimenti eccezionali di aratri, falcetti con armature in selce e ruote; l’allevamento di bovini, suini, ovini e caprini è ben attestato. Il legno veniva utilizzato, oltre che per le costruzioni, per fabbricare un gran numero di utensili. La produzione vascolare di queste comunità è generalmente d’impasto scuro e non decorata, ed è diffusa in larga parte dell’Italia settentrionale a nord del Po. In campo metallurgico la produzione è differenziata e frequenti sono i ripostigli di bronzi (depositi intenzionali di manufatti in metallo, in questa fase di solito composti da una sola categoria di oggetti, in luoghi isolati in prossimità degli insediamenti).
Le Terramare: i villaggi e l’organizzazione del territorio
La Pianura Padana e le aree collinari dell’Appennino, dopo il periodo iniziale dell’Età del bronzo durante il quale appaiono scarsamente abitate, sono caratterizzate a partire dal 1650 a.C. ca., dall’intensa occupazione territoriale delle Terramare, il cui nome deriva da terra marna, termine usato nel XIX secolo dai contadini per indicare i depositi dai quali ricavavano terreno organico adatto come concime, ma che, in realtà, costituivano gli accumuli dei resti organici stratificati dei villaggi che per secoli, durante l’Età del bronzo, avevano occupato quei territori.
La società terramaricola, complessa e apparentemente ben avviata verso un processo di proto-urbanizzazione, interessava tutta l’area centrale padana a sud del Po e si caratterizzava per i suoi villaggi approssimativamente quadrangolari, dall’estensione anche superiore ai dieci ettari, delimitati da fossati, terrapieni e strutture lignee. Le caratteristiche dell’occupazione del territorio sembrano finalizzate a creare una fitta rete di sfruttamento e controllo della pianura attraverso insediamenti arginati che in una fase più avanzata erano posti accanto ad altri più piccoli e meno strutturati, distanziati tra loro. La necessità di ottenere legname per le costruzioni e di circondare il villaggio di terreni coltivabili o adatti al pascolo comportò il disboscamento di ampie fasce di territorio intorno agli abitati, dove furono realizzate anche infrastrutture a uso agricolo (pozzi, canali). I villaggi erano organizzati con strade ortogonali a separare file di capanne quadrangolari, costruite su impalcato ligneo o direttamente a terra, di forma e dimensioni simili. La nascita delle Terramare si può spiegare come un graduale processo di colonizzazione proveniente dalle aree palafitticole settentrionali, già densamente abitate fin dagli inizi dell’Età del bronzo.
Le Terramare: sussistenza, produzione, scambi e crisi
La presenza di infrastrutture (terrapieni, fossati, canali) e la struttura stessa dei villaggi terramaricoli presuppongono una pianificazione delle attività e il coinvolgimento di settori consistenti della popolazione nelle fasi costruttive, indirizzati dalle élite dominanti.
L’economia di sussistenza della società terramaricola si basa sull’agricoltura, con disboscamento di ampie superfici da mettere a coltura, uso di tecniche di irrigazione, dell’aratro trainato da animali e di falcetti in bronzo, e sull’allevamento diffuso di bovini, suini, ovini e caprini. Fortemente standardizzate appaiono le diverse attività artigianali: la metallurgia aveva un ruolo predominante con la probabile presenza stabile di metallurghi nei villaggi, che oltre a produrre armi (spade, pugnali, punte di lancia), realizzavano utensili di vario tipo (asce, coltelli, falci, scalpelli) e oggetti per la cura e l’ornamento personale (spilloni, rasoi, fibule). La produzione di oggetti in materia dura animale (corno e osso) appare tanto sviluppata da far supporre a un artigianato specializzato, e anche la tessitura (non solo lana, ma anche lino e canapa) doveva essere rilevante, come testimonia il rinvenimento di una grande quantità di fuseruole, pesi da telaio e aghi. Altra attività artigianale fondamentale fu la produzione ceramica che, svolta a livello domestico, provvedeva non solo al fabbisogno di vasi idonei a conservare, trattare e consumare cibi e bevande, ma anche a realizzare fornelli, alari, pesi e fuseruole. Gli scambi – oltre alla necessità di approvvigionamento del metallo, non presente nella Pianura Padana – sono legati al reperimento di beni e merci esotiche, come l’ambra di provenienza baltica. Le Terramare mostrano uno sviluppo costante nel tempo fino al 1150 a.C. ca., quando il sistema entra in crisi e porta in breve tempo al collasso dell’organizzazione produttiva, causando uno spopolamento totale della Pianura Padana centrale a sud del Po. Le cause della crisi vanno ricercate probabilmente in una serie di fattori che possono aver contribuito negativamente in misura diversa: la pressione demografica, lo sfruttamento dei suoli e la deforestazione, una crisi ambientale in senso arido che ha provocato l’abbassamento delle falde idriche.
Le fasi centrali dell’Età del bronzo in Italia centro-meridionale
Nelle fasi centrali dell’Età del bronzo (1400-1150 a.C. ca.) in Italia centro-meridionale si riscontra una notevole omogeneità tra i due versanti appenninici, soprattutto nelle forme ceramiche. Si diffusero in successione 2 stili ceramici con caratteristiche simili: il primo (“appenninico”) è caratterizzato da una ceramica scura e lucida con presenza di decorazioni realizzate tramite incisioni e intagli profondi a motivi geometrici, riempiti spesso di pasta biancastra per creare un effetto di contrasto cromatico; il secondo (“subappenninico”) è caratterizzato dalla presenza di contenitori con manici e anse che oltrepassano verso l’alto l’imboccatura del vaso e terminazioni modellate in varie forme (a corna, a lobo, a testa d’uccello).
In contrasto a questa apparente omogeneità comparvero, soprattutto lungo le coste meridionali e nell’area centrale tirrenica, numerosi insediamenti dotati di mura o fossati difensivi; nell’area più interna le grotte erano frequentate, probabilmente per le attività legate alla pastorizia transumante che in questa fase determinò un intensificarsi delle attività legate allo sfruttamento dei prodotti secondari (formaggio, filatura, tessitura). La complessità della stratificazione sociale è testimoniata dall’ampia variabilità sia delle strutture sepolcrali che della composizione dei corredi, alcuni dei quali estremamente ricchi. Questa complessità si può anche connettere alla presenza della rete di scambi con il mondo miceneo, documentato dai numerosi rinvenimenti di ceramiche micenee in insediamenti costieri adriatici e tirrenici. La presenza di maestranze specializzate sul territorio permise alle comunità locali di entrare in contatto con nuove idee e tecnologie, portando alla diffusione di nuove colture, come quelle della vite e dell’ulivo.
Il rituale e le pratiche cultuali delle incinerazioni
A partire dal XIII sec. a.C. in Europa centrale, con la “cultura dei Campi di Urne”, e progressivamente anche in Italia, si assistette in ambito funerario alla diffusione del rito incineratorio (già attestato nel Neolitico), che modificava il rapporto con il momento di trapasso tra la vita e la morte e le cui pratiche cultuali si differenziavano rispetto ai periodi precedenti.
In diverse aree dell’Italia settentrionale si diffuse l’uso della cremazione, che divenne il rito prevalente nel nord-ovest ed esclusivo in area terramaricola. Il rituale dell’incinerazione è comunque attestato anche nel resto della penisola, in particolare lungo il litorale tirrenico (necropoli di Cavallo Morto) e in Italia sud-orientale (necropoli di Canosa e di Torre Castelluccia). Il rituale prevede la combustione del defunto su pire funebri e la raccolta dei resti combusti all’interno di un contenitore ceramico (il cinerario), che a volte veniva chiuso posizionando sull’imboccatura una tazza o una scodella capovolta o un frammento di un grande vaso (probabilmente le urne ritrovate senza vaso di copertura erano state chiuse con materiali deperibili). Le urne erano poi seppellite in pozzetti scavati nel terreno all’interno di necropoli posizionate al di fuori degli abitati, e la presenza della sepoltura veniva indicata tramite un ciottolo fluviale di grandi dimensioni infisso nel terreno al di sopra dei pozzetti. Nei cinerari i rari oggetti di corredo sono per lo più parti dell’abbigliamento che il defunto indossava sulla pira al momento del rogo; solo raramente erano inseriti altri oggetti (come nel caso della sepoltura di Coarezza). I reperti ossei e dentari rinvenuti parzialmente distrutti o modificati dall’azione del fuoco all’interno delle urne sono stati a lungo considerati inadatti per una ricostruzione delle caratteristiche antropologiche e delle condizioni di vita delle comunità umane del passato, ma, grazie allo sviluppo di nuove metodologie di analisi, è possibile ottenere numerose informazioni riguardanti il sesso e l’età del defunto, il numero degli individui presenti nella stessa urna, la temperatura raggiunta durante la cremazione e altri dati relativi agli aspetti paleo-nutrizionali e paleo-patologici.
Il Protovillanoviano
Fra il 1200 e il 950 a.C. ca. è documentata in Italia la cultura convenzionalmente definita “protovillanoviana”, concentrata nelle regioni minerarie tirreniche, ma fenomeni culturali con caratteristiche simili, pur se con aspetti locali, si ritrovano in tutta l’Italia, compresa la Sicilia e le isole Eolie, e rappresentano il precedente diretto delle culture della prima Età del Ferro.
Elementi distintivi sono una crescita demografica diffusa (ad eccezione della Pianura Padana) e il rituale funerario dell’incinerazione (che si diffonde uniformemente in tutta la penisola e prevale sull’inumazione), per il quale vengono utilizzati come ossuari contenitori ceramici dalla forma biconica, decorati a incisione o a impressione con motivi triangolari o fasci di linee, che vengono chiusi da una scodella capovolta sull’imboccatura; il corredo funerario è solitamente limitato a pochi oggetti, che costituiscono anche gli indicatori del genere del defunto. L’economia di sussistenza si basa sull’allevamento e su un’agricoltura che, grazie alla produzione di attrezzi agricoli in bronzo su scala sempre più ampia, appare potenziata. In Etruria la produzione metallurgica assume un peso maggiore rispetto alle altre regioni; oltre a ornamenti personali, oggetti di prestigio e armi (sia da offesa che da difesa), sono prodotti in notevole varietà strumenti usati nelle attività quotidiane, come asce, falci e falcetti, arpioni per la pesca, seghe, scalpelli. Le coste italiane continuarono a essere frequentate da navigatori egei ma in maniera meno assidua rispetto ai periodi precedenti a causa della progressiva decadenza dei regni micenei. Le regioni più coinvolte in questi traffici erano la Puglia, la Calabria e le isole Eolie, tuttavia frammenti di ceramica micenea sono stati trovati anche in Veneto e sulle coste tirreniche dell’Italia centrale.
Fase finale: una metallurgia sempre più locale e territorializzata
In Italia l’insediamento di Frattesina di Fratta Polesine (Rovigo), sorto lungo il ramo settentrionale della foce del fiume Po, assunse un ruolo primario nel circuito internazionale degli scambi e vide fiorire numerose attività artigianali specializzate, come la lavorazione di pasta vitrea, ambra baltica, corno, osso e avorio africano.
A Frattesina faceva infatti capo sia la “via dell’ambra” – il lungo itinerario che dal Mar Baltico, passando per l’Europa centrale, attraversava le Alpi lungo l’Adige – sia la “via dei metalli” – che la collegava al distretto minerario dell’Etruria meridionale attraverso i valichi appenninici. Lungo queste vie arrivavano oggetti d’ambra sui Monti della Tolfa e a sud del Tevere, e oggetti di bronzo di fattura tirrenica nei “ripostigli” veneti. In Etruria tutto il territorio era densamente abitato, sebbene si riscontrasse una concentrazione maggiore in prossimità delle zone minerarie, dove necropoli, abitati e “ripostigli” di bronzi erano particolarmente numerosi e ricchi. Piccoli villaggi costituiti da capanne a pianta ellittica, circolare o rettangolare costruite con pali, frasche e argilla, con una canaletta perimetrale per il deflusso delle acque, sorgevano nelle zone dove successivamente si svilupparono i centri villanoviani e poi le grandi città etrusche. Anche nell’Italia centrale adriatica e in quella meridionale tirrenica la cultura protovillanoviana è ben documentata; le produzioni metallurgiche, pur mostrando affinità con quelle dell’Etruria meridionale (soprattutto in Umbria, Marche e Campania), assunsero con il passare del tempo caratteri tipologici e stilistici sempre più locali e territorializzati – sebbene alcune categorie di manufatti (come ad esempio le spade) continuarono ad avere un’ampia diffusione interterritoriale.
I “ripostigli”
Con il termine “ripostigli” gli archeologi indicano un insieme di oggetti metallici deposti intenzionalmente nello stesso luogo, i cui rinvenimenti in Italia risultano particolarmente numerosi durante le fasi iniziali e finali dell’Età del bronzo. I ripostigli possono trovarsi dentro una buca scavata nel terreno, in un crepaccio, dentro una grotta, oppure gli oggetti possono essere riposti dentro un vaso, a sua volta sotterrato o nascosto. Nei ripostigli sono conservati oggetti nuovi, usati, rotti, contorti, scorie di fusione, semilavorati, lingotti e altri, associati nei più vari modi.
Questi depositi possono essere composti da oggetti appartenenti allo stesso periodo o di epoche diverse, possono contenere solo una (il caso più frequente nella fase iniziale dell’Età del bronzo) o più categorie di oggetti, e possono esservi conservati oggetti realizzati con lo stesso materiale o meno. Sebbene le interpretazioni per spiegare queste testimonianze siano diverse e a volte contrastanti (depositi di fonditori, mercanti o officine specializzate; offerte votive; forme di tesaurizzazione di intere comunità o di gruppi ristretti), le informazioni che si possono recuperare da questo tipo di depositi permettono considerazioni cronologiche e economiche utili per ricostruire la circolazione di materiali fra ambiti culturali diversi, anche molto distanti fra loro. La contrapposizione nella loro composizione appare evidente dal confronto tra 2 ripostigli. Il primo è quello di Coste del Marano (Tolfa, Roma, XI sec. a.C.), formato da oggetti integri di grande pregio che mostra l’alto livello qualitativo raggiunto nella produzione metallurgica. Il secondo è quello di Piediluco (Terni, VIII sec. a.C.), costituito da oggetti in metallo per un peso complessivo di oltre due quintali: quasi tutti i materiali rinvenuti, conservati all’interno di un grande vaso, sono rotti intenzionalmente, o contorti dal fuoco, o comunque resi inservibili. Il deposito risulta particolarmente interessante per la testimonianza di contatti anche a lunga distanza, vi sono infatti contenuti oggetti databili al XII sec. a.C. di probabile importazione cipriota.
La tessitura
Nello scavo di un sito archeologico dell’Età del bronzo è abbastanza frequente rinvenire una fuseruola, un rocchetto o un peso da telaio (ovvero lo strumentario non deperibile per la tessitura), a dimostrazione di quanto la manifattura tessile fosse abitualmente praticata a ogni livello sociale e, quindi, della sua importanza economica e culturale.
Al di là del rinvenimento eccezionale, per lo stato di conservazione, di altri materiali organici (come le palafitte e le terramare), le ricerche recenti hanno dimostrato che parti di tessuto o di filato possono conservarsi molto più facilmente di quanto si pensi, sia nel loro stato originale o in tracce carbonizzate o mineralizzate, sia sotto forma di impronte. L’ingente quantità di fusaiole (piccoli oggetti in terracotta di varie forme, forati verticalmente, usati come peso e necessari alla rotazione del fuso, ossia l’asticella di legno o bronzo che veniva inserita nel foro) recuperate negli scavi terramaricoli lascia supporre che gli abitanti producessero filati e tessuti in grande quantità. La materia prima era costituita dal lino, documentato da sporadici ritrovamenti di semi, e dalla lana, come dimostrano i numerosi resti di ovini rinvenuti. I telai (prei)storici non sono mai stati rinvenuti, ma disponiamo di fonti indirette (rappresentazioni di telai su incisioni rupestri e sul Trono di Verucchio) che possono aiutarci nella loro ricostruzione: si trattava di intelaiature verticali (telaio verticale) in legno molto semplici, su cui si fissavano dei fili paralleli e verticali (l’ordito) legati inferiormente ai pesi da telaio che servivano a tenerli tesi; i fili dell’ordito erano tenuti separati e nello spazio intermedio venivano passati, tenuti da bastoncini o spolette, dei fili orizzontali (la trama), che andavano così a formare un intreccio perpendicolare. Durante la costruzione dell’intreccio erano usati, per serrare i fili della trama, anche altri oggetti realizzati in legno, osso o corno, come spade e coltelli da tessitore, o i pettini in osso. Erano certamente connessi alle attività tessili anche punte, punteruoli, aghi in osso, corno o metallo, che però non erano di uso esclusivo per queste attività.
La lavorazione del corno e dell’osso
Fin dal Paleolitico varie comunità avevano utilizzato la materia dura animale per ricavare utensili, armi e oggetti d’ornamento; si trattava di una materia prima quindi ben conosciuta, facilmente reperibile e con caratteristiche strutturali che ne consentivano un molteplice utilizzo, di cui forniscono ampia documentazione l’area palafitticola e terramaricola e le aree lacustri svizzere.
Durante l’Età del bronzo il corno utilizzato prevalentemente era quello di cervo (meno frequentemente quello di capriolo) che, grazie alle sue dimensioni, robustezza e elasticità era largamente impiegato per realizzare zappe e picconi. L’osso aveva invece il vantaggio di essere ancor più facilmente disponibile, con un ridotto investimento anche in termini di tempo, per la produzione di determinati oggetti (sebbene i processi di disarticolazione e pulitura iniziali fossero necessariamente più gravose rispetto al corno); oltretutto era possibile partire anche da schegge di ossa lunghe per la produzione di punte, spilloni, aghi, punte doppie. I manufatti rinvenuti mostrano una notevole varietà tipologica: grandi oggetti con uno o più fori che dovevano essere parti di manufatti più complessi; oggetti con una o due estremità taglienti (zappette, picconi, scalpelli, spatole, numerosi tipi di punte, punteruoli, punte di freccia); oggetti in osso e corna destinati all’immanicatura; morsi equini; oggetti di ornamento personale, molti dei quali finemente decorati (rotelle piene o raggiate, spilloni, bottoni e pettini). Il rinvenimento in area terramaricola di grandi quantità di oggetti finiti, in corso di fabbricazione o scarti di lavorazione, dimostra che la produzione in materia dura animale era una produzione locale. Una parte della produzione era realizzata a livello domestico, mentre la presenza di un artigianato specializzato è dimostrato dalla complessità delle tecniche necessarie alla realizzazione in particolare di alcuni tipi di manufatti e all’elevato grado di standardizzazione dei prodotti.
La metallurgia: non solo fabbri ma anche cercatori e minatori
A prescindere dalle diverse ipotesi sull’origine della metallurgia (diffusione dall’Asia Minore o scoperte autonome avvenute in più centri e in momenti diversi) è certo che l’acquisizione di saperi e tecniche necessari al suo sviluppo sono stati il risultato di un processo lungo e multiforme, che è durato millenni e ha attraversato diverse fasi tecnologiche.
L’innovazione metallurgica comportò cambiamenti profondi nella struttura economico-sociale delle comunità: l’approvvigionamento di materie prime e la necessità di operatori specializzati – non solo fabbri, ma anche cercatori e minatori – richiedevano relazioni commerciali estese e regolari, con conseguente diffusione di nuovi modelli e idee. Il complesso ciclo metallurgico comportava l’interconnessione di diverse fasi: l’individuazione del filone metallifero, l’asportazione della roccia contenente il minerale, il trasporto in superficie dei minerali, la separazione del metallo dalla roccia, la trasformazione del metallo in lingotti (con funzione di approvvigionamento della materia prima, oggetto quindi di commerci e scambi), la rifusione dei lingotti, la colatura nella matrice, l’estrazione del prodotto semi-lavorato e, infine, la rifinitura e decorazione per giungere al prodotto finito. Le tecniche metallurgiche e i diversi stadi tecnologici raggiunti sono passati attraverso il corretto controllo del fuoco e delle conoscenze necessarie al raggiungimento delle temperature di fusione (per il rame 1083° C): erano infatti necessari elaborati forni di fusione con fori di aerazione, crogioli per contenere il rame fuso e matrici in cui colare il metallo.
La metallurgia: una nuova lega, il bronzo
Dopo la lunga fase di utilizzo prevalente del rame, un ulteriore stadio tecnologico si è ottenuto riuscendo a fondere insieme rame e stagno per ottenere il bronzo, tecnologia che si diffuse in Italia nel corso del III millennio a.C. Lo stagno conferisce al metallo ottenuto un colore giallo caldo simile a quello dell’oro e soprattutto – tramite un lento raffreddamento – una durezza che si avvicina a quella degli strumenti in pietra, senza tuttavia averne la fragilità. L’uso del bronzo permetteva inoltre di rifondere gli oggetti metallici per ottenerne altri completamente nuovi.
Durante l’Età del bronzo fu perfezionato l’impiego della forma di fusione, già in uso durante l’Eneolitico, che riproduceva in negativo l’oggetto da realizzare e dentro la quale venivano colati il metallo o la lega fusi consentendo di ottenere velocemente numerosi oggetti della stessa tipologia. Nel periodo più antico la forma di fusione, che nel caso più comune era di pietra ma poteva essere anche di terracotta, era costituita da una sola valva e poteva essere utilizzata per la realizzazione di oggetti semplici, quali asce o pugnali piatti. Successivamente l’impiego di due valve distinte, una per ogni faccia, consentì la realizzazione di manufatti più complessi e resistenti, quali pugnali e spade con costolatura centrale, punte di lancia e asce con immanicature particolari. Anche i forni furono gradualmente perfezionati consentendo, grazie all’introduzione d’aria forzata mediante mantice, di sviluppare più calore e di facilitare così la fusione stessa.
Il legno, un materiale indispensabile per la vita quotidiana
La produzione dei primi manufatti in legno è certamente antica come quella dei primi manufatti in pietra, anche se in rari casi è giunta fino a noi – come nei casi degli insediamenti palafitticoli e terramaricoli italiani. Le migliaia di manufatti in legno rinvenuti in questi villaggi dell’Età del bronzo (soprattutto nelle palafitte alpine) con estremità lavorate, fori e modanature per incastri, ci danno un’idea solo parziale delle notevoli capacità carpentieristiche di queste comunità, indicando comunque quanto il legno rappresentasse un materiale indispensabile per la vita quotidiana dei villaggi.
Documentando anche la puntuale conoscenza delle risorse disponibili sugli specifici territori, il legno veniva infatti utilizzato (con l’argilla) per le costruzioni abitative, i pavimenti, le palizzate, i gabbioni che servivano a rinforzare internamente i terrapieni, i recinti per gli animali, oltre alla realizzazione di imbarcazioni, contenitori, veicoli su ruote e di attrezzi agricoli come gli aratri, trainati dai buoi per dissodare il terreno, i manici delle zappette di corno, usate per sarchiare i campi e gli utensili utilizzati per la preparazione dei cibi. Queste attività di costruzione provocavano per altro il massiccio disboscamento dei territori circostanti i villaggi, come testimoniato da analisi di dettaglio condotte negli insediamenti palafitticoli: mentre nel primo impianto di un nuovo villaggio venivano infatti utilizzati tronchi pesanti di legno duro, le riparazioni o le costruzioni successive erano realizzati con ceppi più deboli o tipologie di legno meno adatte.