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Il Neolitico: una rivoluzione, ma graduale e variabile

Sotto l’influsso e le opportunità derivanti dai cambiamenti climatici e ambientali, diversi gruppi umani in varie parti del mondo, in momenti distinti e con differenti modalità e sequenze, cominciarono a coltivare le piante e domesticare gli animali, a vivere in insediamenti stabili e a produrre ceramica. Il nuovo modello di sussistenza, basato non più sulla caccia e raccolta ma sulla produzione del cibo, trasformò gradualmente lo stile di vita delle comunità. Le popolazioni diventarono sedentarie e più numerose, e allo stesso tempo si intensificarono i rapporti e gli scambi, anche a grande distanza, tra le diverse comunità.

 

La transizione neolitica non fu un fenomeno ubiquitario, omogeneo o repentino. I primi cambiamenti di sussistenza si verificarono in modo indipendente nelle regioni in cui erano presenti specie selvatiche di piante e animali adatte ad essere domesticate. I principali centri di origine si svilupparono in Asia, Africa e nelle Americhe, e da questi l’economia produttiva si espanse progressivamente in altre aree geografiche, per contatti culturali o spostamenti di gruppi umani – come nel caso della sua diffusione in Europa a partire dalla regione della cosiddetta “Mezzaluna Fertile”, nel Vicino Oriente. In molti casi la transizione non fu immediata, e non influenzò radicalmente gli stili di vita, mentre in altri il modello produttivo venne anticipato da esperimenti di coltivazione da parte di gruppi mesolitici. Pur con alcuni elementi comuni di fondo, il Neolitico si manifestò quindi con caratteristiche distintive da comunità a comunità: variavano le specie allevate e coltivate, i sistemi culturali, le tecnologie, le organizzazioni sociali e le attività economiche, anche in relazione alle diverse condizioni ambientali. Ad esempio nel Vicino Oriente, all’inizio di questo periodo non venivano ancora fabbricati contenitori di ceramica, mentre questi erano presenti in altri gruppi più antichi, come in Estremo Oriente; nel Nord Africa le popolazioni pastorali per lungo tempo praticarono il nomadismo e non l’agricoltura, anche se già utilizzavano la ceramica. I nuovi sistemi produttivi e gli insediamenti stabili iniziarono nondimeno ad incidere sui territori, provocando profonde modificazioni ambientali e culturali, che nel tempo diventeranno irreversibili.

 

 

La trasformazione della materia: dall’argilla alla creazione della ceramica

 

Nuovi materiali, tecniche e strumenti nascono per rispondere alle nuove esigenze. Uno dei prodotti più innovativi di questo periodo è rappresentato dalla ceramica per la sua versatilità d’uso e capacità di veicolare la diffusione di nuove idee. La ceramica è un materiale fabbricato dall’uomo partendo dall’argilla, la cui plasticità permette la produzione di vasi di varie forme rispondenti a innumerevoli funzioni. La comparsa di recipienti d’argilla essiccati al sole e, in seguito, di ceramiche cotte negli appositi forni, costituisce la più importante innovazione tecnologica del Neolitico.

 

L’essere umano riesce a trasformare la materia prima, l’argilla, in qualcosa di diverso che non esiste allo stato naturale: la ceramica viene “creata”. La cottura alla quale erano sottoposti i vasi realizzati li rendeva resistenti, e quindi più durevoli. La fase di cottura aveva basse temperature perché veniva effettuata a fuoco aperto. I vasi più grandi, modellati a mano o con l’aiuto di stampi da cesteria, erano generalmente usati per trasportare, immagazzinare e conservare i prodotti agricoli destinati al consumo o alla semina. Alcuni vasi, modellati anch’essi a mano o con l’aiuto di stampi da cesteria, erano decorati con applicazioni o motivi molto vistosi, realizzati incidendo o imprimendo elementi come punzoni o conchiglie. I diversi stili di ceramica forniscono informazioni sulla tecnologia sviluppata dai vari gruppi di fabbricanti e permettono di avvicinarci ai loro criteri estetici e di situarli nel tempo. La ceramica rappresentò la maggiore innovazione neolitica anche nella preparazione dei cibi: i recipienti di ceramica permisero di elevare la temperatura oltre i 100° rendendo così commestibili alcuni prodotti che prima non venivano mangiati, grazie all’eliminazione di tossine che non sarebbero scomparse sotto questa temperatura.

 

 

Percorsi di domesticazione animale 

L’inizio della produzione di cibo con l’avvento di agricoltura e allevamento è uno degli aspetti basilari del Neolitico; tuttavia, questo cambiamento non è intervenuto ovunque nello stesso momento, né seguendo una stessa sequenza o processo.

 

La domesticazione degli animali, iniziata con il cane nel Paleolitico superiore, ha seguito per esempio percorsi variabili a seconda delle specie. In alcuni casi (come il cane, il maiale, il gatto o il pollo) la relazione con gli esseri umani è iniziata come commensalismo: questi animali erano attratti dall’ambiente creato dall’uomo e nel tempo il legame è divenuto più stretto. Altre specie (come la pecora, la capra e il bue) sono state domesticate dopo essere state al lungo oggetto di predazione da parte dei cacciatori, passando attraverso una fase di gestione del branco selvatico con abbattimenti selettivi in base all’età e al sesso. Per altri animali (come il cavallo, l’asino, il dromedario, il coniglio) il processo di domesticazione, avvenuto in un periodo successivo al Neolitico, è stato più diretto poiché a quel punto il concetto di animale domestico era già stato acquisito. La domesticazione, con l’isolamento della popolazione domestica da quella selvatica, ha portato negli animali (come pure nelle piante) dei cambiamenti a livello genetico che si sono manifestati anche nell’aspetto. Tuttavia tale isolamento non è stato necessariamente completo sin dall’inizio, come sappiamo anche da confronti etnografici, e il continuo flusso genico tra la le due popolazioni (selvatica e domestica) ha resto più difficile determinare l’avvenuta domesticazione sulla base dei resti rinvenuti nei siti archeologici.

 

 

Le reti commerciali del Neolitico: approvvigionamento, lavorazione e circolazione 

 

Un altro fattore d’intensificazione economica durante il Neolitico fu lo sviluppo di reti commerciali attraverso le quali circolavano i prodotti essenziali, tra i quali sale e materie prime ricercate per la fabbricazione di alcuni strumenti (ossidiana, selce, pietra verde) o a uso ornamentale e simbolico (ambra, avorio, conchiglie).

 

L’esistenza di strumenti e oggetti realizzati con materiali provenienti da territori lontani da quelli delle comunità dove sono stati rinvenuti permette di tracciare le reti commerciali allora in uso, alcune delle quali erano già sviluppate su lunghe distanze, come nel caso delle grandi asce levigate di origine alpina. Con lo stabilizzarsi degli insediamenti crebbe l’esigenza di approvvigionarsi di materie prime non presenti sul territorio occupato, sia per motivi utilitaristici sia simbolici; si creò così un sistema di connessioni sociali tra popolazioni vicine, alimentata da scambi e doni. La circolazione di beni di prestigio è documentata ad esempio dagli anelloni in pietra verde dell’area alpina occidentale, presenti in varie parti dell’Italia centro-settentrionale e della Sardegna, e dalle conchiglie Spondylus, “commercializzate” in quasi tutta l’Europa centrale e balcanica. Si diffusero inoltre nuove forme di artigianato specializzato: ne sono esempi significativi la lavorazione della pietra levigata ad Alba (Cuneo) e della selce a Hesbaye (Belgio), dove entrambe le comunità producevano un’eccedenza rispetto alle loro necessità e pertanto il surplus divenne oggetto di scambio, talvolta a vastissimo raggio. Lo sviluppo dei mezzi di comunicazione e di trasporto è chiaramente collegato anche all’intensificarsi di questi scambi. I traffici di materie prime e di prodotti finiti furono fondamentali anche per la circolazione di idee e saperi tra le varie comunità, permettendo, nello spazio di qualche millennio, la trasformazione delle culture dei vari gruppi umani verso forme più articolate e complesse.

 

 

Ossidiana, l’ascia levigata: 3 approfondimenti 

 

  • L’ossidiana è un vetro vulcanico duro, fragile e scheggiabile, da cui si ottengono strumenti dal taglio particolarmente efficace; durante il Neolitico è stata oggetto di un intenso commercio che sparì progressivamente soltanto con l’introduzione del metallo. Nell’area mediterranea l’ossidiana (che si trova in natura solo in alcuni giacimenti in Italia, in area egea e in Anatolia) era largamente utilizzata anche da comunità stanziate fino a centinaia di chilometri di distanza dal luogo di origine del materiale, si può quindi pensare a un modello di scambio o dono tra i villaggi e/o all’esistenza di una rete commerciale senza la necessaria presenza di veri e propri mercanti. L’ossidiana poteva avere un valore differente per le varie popolazioni: nelle zone vicino al centro di diffusione veniva considerata soltanto per il suo utilizzo funzionale, mentre in altri contesti poteva assumere anche un valore di prestigio sociale. Attraverso un particolare metodo spettrografico è possibile individuare le percentuali di elementi minerali presenti in traccia nell’ossidiana, riconoscendo in modo sicuro la sua provenienza e ipotizzando le probabili vie di diffusione.

 

  • La diffusione della nuova tecnologia della pietra levigata mise la pietra verde piemontese al centro di un fenomeno commerciale di produzione e circolazione, al punto da essere considerata un “fossile guida”. Nell’economia del villaggio di Alba (Cuneo), abitato per tutto l’arco del Neolitico, l’attività artigianale specializzata della lavorazione di questa pietra, praticata probabilmente a tempo parziale da una parte dei suoi abitanti, ebbe un ruolo notevole. L’area di approvvigionamento coincide con i corsi d’acqua della valle del Tanaro, da cui l’abitato neolitico distava ca. 30 km, in una zona favorevole all’economia di sostentamento; gli abitanti effettuavano spedizioni di diversi giorni per reperire la materia prima e trasportarla al villaggio, o allo stato naturale o sotto forma di sbozzi o nuclei al fine di evitare pesi inutili o di materia inadatta alla lavorazione. La valle inoltre, essendo un’ottima via di comunicazione tra Liguria e la valle Padana, favorì l’attività di scambio anche a lungo raggio, e infatti la giadeite piemontese, che probabilmente rivestiva un valore più simbolico che utilitaristico, è stata ritrovata persino in Inghilterra. La pietra verde alpina si prestava anche al riciclo degli strumenti rotti o inutilizzati, sotto forma di riaffilatura del taglio, fabbricazione di nuovi strumenti, riutilizzo come percussore o come incudine.

 

  • L’utensile umano nasce in risposta a nuovi bisogni economico-sociali che spingono ad utilizzare in modo diffuso materiali e tecnologie già in parte noti: la diffusione dell’uso dell’ascia in pietra levigata, più resistente ai colpi, si può collegare all’intensa attività di disboscamento in atto con l’introduzione dell’agricoltura. Per strumenti interamente levigati, spesso realizzati nei materiali più rari, si può ipotizzare anche un valore di carattere simbolico.

 

 

Monte Venere: una grotta rituale

 

Il Monte Venere (833 m) si trova sulla sponda settentrionale del lago di Vico. Originariamente era completamente circondato dalle acque: il livello del lago era, infatti, sensibilmente superiore a quello odierno, raggiunto in seguito a opere di canalizzazione sia etrusche che quattrocentesche. Sulla sommità, a circa 850 m, si apre la cavità d’origine vulcanica più grande della regione, il Pozzo del Diavolo, al cui interno sono stati trovati diversi manufatti risalenti al Neolitico (V-IV millennio a.C.).

 

L’ingresso della grotta risultava già allora ostruita da un crollo, ancora oggi visibile, di grandi macigni distaccati dalla volta che rendevano difficile accedere e frequentarne l’interno; se consideriamo inoltre la difficoltà di raggiungere il monte, circondato dalle acque, è lecito pensare che l’uso della grotta fosse connesso a pratiche culturali. Al suo interno sono stati recuperati oggetti con caratteristiche molto simili a manufatti prodotti in area adriatica nello stesso periodo, che testimoniano una fitta rete di contatti e scambi. La presenza di macine – rinvenute anche in altre grotte laziali frequentate nella stessa epoca – testimonia culti connessi alla fertilità in società a forte componente agricola. Molti dei vasi rinvenuti sono caratterizzati da forme e decorazioni incise (stile del Sasso), mentre si differenzia tra i ritrovamenti effettuati una particolare classe di vasi realizzati con impasti di argilla chiara e decorazioni dipinte in colore bruno (bande angolari sul corpo e talora triangoli pieni sul collo). realizzate con la tecnica definita “a risparmio” (stile di Monte Venere).

 

 

Culti e riti

 

Le testimonianze relative alle pratiche rituali e al pensiero religioso, già presenti nei periodi precedenti, offrono a partire dal Neolitico una straordinaria ricchezza e varietà di espressione. Le manifestazioni del sacro sono documentate, oltre che dalle sepolture, da numerose altre manifestazioni tra cui figurine femminili d’argilla rinvenute negli abitati, connesse a un probabile culto della fertilità.

 

L’aspetto che meglio conosciamo è quello dei rituali funerari. Nel Neolitico, infatti, le sepolture diventarono più numerose, e quindi archeologicamente più individuabili. Oltre alla condizione sociale del defunto, i diversi elementi che caratterizzano una sepoltura permettono di valutare anche le credenze sull’aldilà: il rito funerario adottato (inumazione o incinerazione), il tipo di deposizione (individuale, multipla o collettiva), la struttura funeraria (grotta naturale o artificiale, megaliti), la disposizione del corpo, la presenza di alterazioni o sconvolgimenti delle ossa, la presenza di elementi del corredo personale o di offerte e la loro abbondanza. Nelle fasi più antiche del Neolitico spesso il seppellimento avveniva all’interno dello stesso insediamento, talvolta sotto le singole capanne. Successivamente ai defunti fu riservata un’area specifica, la necropoli (“città dei morti”), solitamente poco distante dall’abitato. In Italia la maggior parte delle manifestazioni di culto è attestata all’interno di grotte: si tratta, ad esempio, di pitture parietali e/o crani umani disposti all’interno di circoli di pietre, talvolta insieme a parti di animali o a piccoli accumuli di cereali; questi ultimi, deposti in vasi o all’interno di pozzetti, sono interpretabili come offerte nell’ambito di culti agrari. In altre occasioni, la presenza di offerte nei pressi di sorgenti d’acqua o all’interno di grotte con gocciolamento d’acqua fa supporre uno specifico culto delle acque.

 

 

La Grotta Patrizi: un antico caso di “intervento chirurgico” 

 

La Grotta Patrizi, una cavità carsica che si apre sul Monte delle Fate nei pressi del Sasso di Furbara (Cerveteri), ha restituito sepolture di diversi individui, tra i quali un uomo adulto (oltre 30 anni di età) con segni di due interventi di trapanazione cranica praticati quando era ancora in vita. Ad oggi è considerata la più antica evidenza di questo tipo di intervento in Italia.

 

La trapanazione consiste nella rimozione di un tassello del cranio a fini terapeutici, rituali o magici. Il primo esempio di trapanazione risale al Paleolitico superiore finale in Marocco; la pratica si diffuse poi ampiamente in epoca neolitica, perdurando in Europa sino al Medioevo. L’inumato di Grotta Patrizi fu sottoposto a due successivi interventi sulla parte superiore del cranio. L’apertura prodotta dal primo intervento mostra segni di rigenerazione dell’osso, ad indicare che l’individuo sopravvisse per alcuni mesi. Un ulteriore intervento produsse solchi lineari e paralleli che non cicatrizzarono; se ne deduce la morte del paziente durante o immediatamente dopo l’operazione. L’individuo è stato trovato adagiato sul fianco destro, in posizione leggermente flessa, con il corpo addossato alla parete rocciosa e delimitato da un muretto di pietre disposte a semicerchio. La presenza di uno spillone d’osso all’altezza del torace fa ritenere che il defunto fosse ricoperto da una veste. Alcuni vasi erano deposti intorno al corpo ed una ciotola era collocata presso le mani. Sotto il cranio erano state poste alcune piccole pietre e tre ossa di lepre. Il letto della sepoltura ha anche restituito grumi di pigmento rosso (cinabro).

 

 

La più antica stratigrafia archeologica in un museo italiano

 

La colonna stratigrafica, prelevata durante gli scavi di Colle Petescia presso Cittaducale (Rieti), rappresenta una “fotografia” che permette, attraverso il riconoscimento degli strati geologici e sedimentari che la compongono, un viaggio a ritroso nel tempo che racconta le vicende del pianoro da oggi a 12.000 anni fa. 

 

Presentata al pubblico nel 1962, è il più antico esempio di esposizione in un museo italiano delle tecniche dello scavo archeologico stratigrafico, realizzato utilizzando una porzione reale dello scavo. I materiali rinvenuti negli strati documentano 4 momenti di occupazione umana del soprastante pianoro, intervallati da periodi in cui la località appare abbandonata. In epoca romana una probabile villa rustica, al tempo stesso residenza di campagna e azienda a conduzione familiare, assicurava lo sfruttamento agricolo del pianoro; le relazioni con i centri abitati limitrofi e con Roma erano garantite dalla vicinanza della via Salaria, importante asse viario che collega i due versanti dell’Appennino, e le cui origini risalgono appunto alla preistoria. Nella precedente Età del bronzo il pianoro era occupato da un villaggio di capanne di cui si conservano intonaci con impronte di parti lignee; le armi e gli utensili per le attività quotidiane erano prevalentemente in bronzo; gli animali venivano allevati anche per il latte e i suoi derivati, per la lana e come forza lavoro; i contenitori in ceramica erano realizzati a mano con una notevole varietà nelle forme e decorazioni. Gli agricoltori del Neolitico individuarono nel pianoro un luogo ottimale per costruirvi le capanne con accanto i campi da coltivare e le aree adibite al pascolo; utilizzavano recipienti in ceramica per conservare, cuocere e consumare cibi, lame e schegge di selce per realizzare armi e utensili; l’esistenza di una rete di scambi a lunga distanza è documentata da strumenti in ossidiana e accettine in pietra verde. I piccoli gruppi nomadi di cacciatori mesolitici furono i primi a frequentare questo territorio particolarmente ricco di acque, boschi e selvaggina; le attività di caccia sono testimoniate dai resti delle loro prede e dalle numerose pietre scheggiate utilizzate anche come punte di armi da getto.