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L’Eneolitico: un periodo di trasformazioni sociali ed economiche

 

Il termine Eneolitico (da aeneus = di bronzo + lithos = pietra) è stato utilizzato dagli archeologi per indicare il periodo nel quale a utensili e armi realizzate in selce e altre pietre dure si affiancò l’uso di strumenti realizzati in metallo. Lo sviluppo di un artigianato specializzato nella produzione metallurgica fu però un processo articolato e di lunga durata.

 

In una prima fase veniva utilizzato il rame nativo, che si può trovare in natura allo stato puro, con il quale erano realizzati oggetti d’ornamento e di prestigio, mentre la sua incidenza in campo sociale ed economico appariva di scarso rilievo. Fu solo in una seconda fase, tramite la riduzione dei minerali di rame (processo produttivo che consente di ottenere rame puro dai minerali che lo contengono, separandolo dagli altri elementi che bruciano al calore), che la metallurgia iniziò ad incidere sull’organizzazione delle società. L’agricoltura e l’allevamento rappresentavano le basi economiche delle comunità eneolitiche, quindi da un lato l’introduzione dell’aratro e della ruota, e dall’altro lo sfruttamento degli animali per ricavarne latte, pelli e lana e utilizzarli come traino nei lavori agricoli e nei trasporti, rivestirono un notevole impatto sull’organizzazione del lavoro e sulla struttura delle società. Il conseguente aumento della produzione, la disponibilità di nuovi prodotti da commerciare, la nascita di attività specializzate e la possibilità di accumulare beni favorirono la divisione sociale del lavoro e una maggiore segmentazione sociale. Emerse su questi presupposti anche la figura del guerriero, che veniva sepolto con armi in selce scheggiata o in pietra levigata, alle quali furono affiancate sempre più frequentemente quelle realizzate in rame.

 

 

La comunità eneolitica di Gricignano di Aversa

 

In Italia l’Eneolitico viene datato tra 3500 e 2200 a.C. ca., e si manifestò in modo differente nel tempo e nello spazio. I quattro principali ambiti culturali di riferimento prendono il nome dalle necropoli dove sono stati identificati per la prima volta, coprendo aree geografiche molto ampie: Gaudo in area meridionale-tirrenica, Rinaldone in area centrale-tirrenica, Remedello nella Pianura Padana e Laterza in area meridionale-orientale (quest’ultimo si diffuse poi anche nell’area centrale-tirrenica, dove sostituii la cultura del Gaudo).

 

Lo scavo di un villaggio e di una necropoli a Gricignano di Aversa (Caserta) è stato determinante per ampliare le conoscenze sulle comunità di cultura Laterza. L’abitato eneolitico, sviluppato in un arco cronologico di almeno 300 anni, nel corso del 3000 a.C., era costituito da numerose capanne di forma prevalentemente ellittica di dimensioni varie (30–200 mq ca.), anche con partizioni interne. Nell’area erano presenti recinti e pozzi, mentre l’uso dell’aratro e del trasporto con carri è testimoniato da impronte di arature e ruote. Nell’ambito culturale Laterza il rituale funerario è quello dell’inumazione, in cui i defunti venivano seppelliti all’interno di necropoli costituite in prevalenza da grotticelle artificiali scavate nel sottosuolo. A Gricignano la necropoli è invece composta da tombe a fossa, nelle quali gli inumati furono prevalentemente deposti in posizione rannicchiata su un fianco, con un rituale differenziato a seconda del sesso del defunto: le tombe femminili sembrano prive di corredo funebre, mentre in quelle maschili era spesso deposto un vaso di forma aperta, rotto intenzionalmente all’esterno della sepoltura, e talvolta anche un secondo vaso, integro e di forma chiusa, oppure punte di freccia o strumenti in selce e, raramente, oggetti in metallo.

 

 

Le sepolture individuali di Remedello e la Tomba 13

 

Nelle culture eneolitiche il comportamento funerario subì una profonda trasformazione rispetto ai periodi precedenti: si assistette a una netta separazione tra il mondo dei morti e quello dei vivi, con la creazione di aree destinate al seppellimento dei defunti al di fuori degli abitati, le necropoli.
In Italia settentrionale uno degli aspetti principali dell’Eneolitico è rappresentato dalla cultura di Remedello, diffusa in area padana tra 3400 e 2500 a.C. ca. e conosciuta prevalentemente sulla base dei dati funerari. Le necropoli di Remedello erano costituite da tombe a fossa con l’inumato deposto in posizione rannicchiata su un fianco o disteso sul dorso con le gambe flesse e piegate di lato. I rituali funerari erano codificati e a volte non terminavano con la sepoltura: le ossa potevano essere ritualmente manipolate in un secondo momento (presenza di scheletri disarticolati o incompleti). La scelta di utilizzare tombe individuali invece di collettive, ampiamente diffuse in altre culture coeve, permette di conservare l’identità del defunto durante il rituale funerario e di sottolineare le differenze di sesso, età, ruolo sociale tramite la posizione trattamento del corpo o la scelta degli oggetti di corredo. Le tombe femminili erano prevalentemente prive di corredo o presentavano solo un manufatto in selce o un vaso in ceramica, mentre nelle sepolture maschili, a sottolineare lo status di guerriero, erano deposte armi e era presente una maggiore variabilità nella composizione dei corredi: alcuni presentano solo una punta di freccia, un pugnale in selce o un’ascia in pietra, mentre in altri questi elementi sono più numerosi o accompagnati da armi in rame (pugnale o ascia). In alcuni casi venivano collocati nelle sepolture oggetti di ornamento personale e strumenti in osso o in corno. Nella cultura Remedello avvenivano anche rare sepolture bisome, cioè con 2 individui sistemati l’uno accanto all’altro, come nella Tomba 13 scoperta a Fontanella di Casalromano (Mantova), in cui le articolazioni deboli ancora in connessione anatomica, come quella della mano poggiata sul fianco della donna, e la posizione dei corpi lasciano supporre che i corpi siano stati sepolti contemporaneamente.

 

 

La cultura di Rinaldone e la Tomba di Sgurgola

La cultura di Rinaldone si sviluppò in area centrale-tirrenica (Toscana, Umbria, Lazio settentrionale) tra 3600 e 2500 a.C. ca. Grazie alle numerose necropoli rinvenute, soprattutto lungo la valle del fiume Fiora, costituisce uno degli aspetti culturali eneolitici meglio documentati.

Il complesso rituale funerario prevedeva l’inumazione dei defunti in necropoli formate dalle cosiddette “tombe a grotticella” (scavate artificialmente nel terreno e costituite da una camera sepolcrale e una struttura di accesso), e da tombe a fossa (meno frequenti). Ampia la varietà dei modi di sepoltura: dall’inumazione di un solo individuo, o in coppia, in connessione anatomica totale o parziale; dalle inumazioni multiple (la maggioranza dei casi) alla deposizione di resti parziali rideposti in un secondo momento e appartenenti a più individui. Siamo in presenza di una sequenza di interventi sui resti umani che presuppongono riaperture della struttura funeraria per inserire altri defunti o eseguire riti, come nella Tomba di Sgurgola, in cui tracce di cinabro sono spalmate direttamente sulle ossa di zigomi e mascella. L’utilizzo di sepolture collettive e di atti cerimoniali eseguiti in momenti diversi successivi alla morte, oltre a evidenziare la complessità delle regole funerarie serviva a cementare i legami della comunità, assicurava la trasformazione del defunto in antenato e ne garantiva il culto. La presenza di armi (asce-martello e teste di mazza in pietra, punte di freccia e pugnali in selce, pugnali e asce di rame) evidenzia il passaggio verso una società più gerarchica e maschile e quindi il peso ideologico assunto dalla guerra e dallo status del guerriero. L’importanza del controllo dei giacimenti minerari, in un’area geografica che ne è particolarmente abbondante, è sottolineata dalla presenza nei corredi funerari di oggetti in metallo. Il rituale funebre è completato dalla presenza quasi costante, accanto ai defunti, di almeno un vaso adatto a contenere liquidi (vaso a fiasco), che riveste un importante simbolismo nel transito dal mondo dei vivi a quello dei morti.

 

 

Il “vaso campaniforme”: un fenomeno europeo, con molte interpretazioni

 

Nella fase finale dell’Eneolitico e fino agli inizi della successiva Età del bronzo (2500–1900 a.C. ca.) si manifestò in tutta Europa un fenomeno culturale denominato “cultura del vaso campaniforme”. Il nome deriva da un contenitore ceramico a forma di campana rovesciata caratterizzato da una fitta decorazione impressa a volte riempita con pasta di colore bianco.

 

La presenza di questi vasi, accompagnati dai cosiddetti “bracciali d’arciere” (placchette rettangolari in pietra o in osso forate alle estremità), bottoni con foro a “V” in osso, punte di freccia in selce e pugnali triangolari in rame, costituisce una tipologia di corredo funerario che si ritrova su tutto il territorio italiano, isole comprese e, con caratteristiche analoghe, in tutta l’Europa centrale, in Inghilterra, nella penisola iberica e in Marocco, mostrando un’ampissima diffusione lungo un periodo relativamente limitato. Il campaniforme rappresenta, quindi, una delle manifestazioni più interessanti della (prei)storia europea, e si presenta con modalità che pongono quesiti in merito alla sua comprensione: elementi campaniformi vengono rinvenuti a volte accanto a reperti della precedente tradizione eneolitica, a volte in contesti abitativi e sepolcrali costituiti esclusivamente da elementi campaniformi. Tali aspetti hanno portato ad avanzare diverse interpretazioni: le testimonianze campaniformi potrebbero essere la prova dell’esistenza di comunità portatrici di una specifica cultura (migrazioni), forse da connettere alle esigenze di reperire risorse minerarie; oppure il campaniforme potrebbe documentare il simbolo della ricchezza di élite emergenti; oppure, ancora, questi elementi potrebbero avere una connotazione rituale da collegare all’uso di bevande fermentate.

 

 

La Tomba della vedova: narrazioni e nuove ipotesi

 

Tra le testimonianze della cultura di Rinaldone la Tomba della vedova, di cui è qui ricostruita la cella con le deposizioni funebri, fu rinvenuta a Ponte San Pietro presso Ischia di Castro (Viterbo) e faceva parte di una necropoli costituita da venticinque sepolture ricavate nel costone di una collina. Si tratta di una caratteristica tomba “a grotticella artificiale” composta da una cella circolare con volta a cupola (alta 85 cm) nella quale si accede tramite un breve corridoio, sigillato da una lastra di pietra.

Nella camera sepolcrale sono deposti i corpi rannicchiati di un uomo adulto e di una giovane donna. Accanto all’uomo è posizionato un corredo funebre composto da 2 vasi e da una serie di armi: un pugnale e un’ascia in rame, un’ascia-martello in pietra levigata, quattordici punte di freccia di selce, una pietra rettangolare (forse una cote per affilare le armi) e un manufatto in corno di cervo (interpretato come porzione di una faretra). Vicino alla donna sono collocati un vaso, una lesina di rame e 3 vaghi di collana. La convinzione che le deposizioni fossero avvenute contemporaneamente, insieme alla ricchezza del corredo maschile (testimonianza di uno status elevato all’interno nella comunità) e alla vistosa frattura sul cranio della donna hanno fatto pensare, fin dalla scoperta, all’uccisione rituale della donna a seguito della morte dell’uomo. A tale ipotesi la tomba deve il suo nome, “della vedova”. Nuovi studi e analisi antropologiche consentono però di revisionare questa narrazione: le datazioni radiometriche recentemente effettuate sui resti dei 2 corpi inumati hanno fornito, per l’uomo, la datazione di 3750–3537 a.C., e per la donna quella di 3635–3376 a.C., rendendo improbabile che la loro morte sia avvenuta nello stesso momento; l’innaturale posizione del cranio dell’uomo (poggiato sulla base e non su un fianco) e tracce di cinabro sulla regione sopraciliare (che si conservano solo se applicate direttamente sull’osso) provano che la tomba sia stata aperta almeno una volta, presumibilmente a scopo rituale  magari proprio in relazione all’ingresso di un altro defunto nella sepoltura; la frattura sul cranio della donna presenta danni consistenti ma non di natura traumatica: l’osservazione al microscopio dei margini delle fratture, delle aree circostanti e l’alterata morfologia del tessuto osseo testimoniano l’intensa attività di piccoli roditori all’interno del cranio.