Come relazionarsi alle opere e ai documenti delle collezioni dell’ex Museo Coloniale di Roma, testimonianza della quasi secolare storia coloniale italiana in Africa (1882-1960)? Come riallestire materiali originariamente musealizzati come materiali di propaganda a supporto dell’occupazione dei territori colonizzati e alla costruzione degli immaginari coloniali?

Le possibili risposte a queste domande sono oggetto di una ricerca in corso che il Museo delle Civiltà sta condividendo con molteplici soggetti: ricercatrici/tori, artiste/i, curatrici/tori, attiviste/i, cittadine/i, testimoni, collettivi e comunità, sia locali che internazionali, nel tentativo di approfondire possibili processi di de-colonizzazione del patrimonio coloniale italiano. Nel farlo si affrontano innanzitutto le molteplici responsabilità di un Museo che conserva circa 12.000 oggetti – tra reperti archeologici, opere d’arte, manufatti artigianali, merci, sementi, strumenti scientifici e tecnologici, carte geografiche e dispositivi allestitivi – che hanno passato oltre 50 anni in deposito (dal 1971, anno di chiusura della sede del Museo Coloniale), favorendo un fenomeno di rimozione collettiva della storia coloniale italiana e la conseguente deresponsabilizzazione verso questa stessa storia e i fenomeni sociali che la nostra contemporaneità ha ereditato da essa. Il presente allestimento – parziale e temporaneo, sotto il titolo di Museo delle Opacità – è dedicato appunto alle collezioni dell’ex Museo Coloniale di Roma, entrate a far parte delle collezioni del Museo delle Civiltà nel 2017 e in corso di ri-catalogazione. Il termine “opacità” assume qui un duplice significato: da un lato fa riferimento, in modo letterale, al velo opaco dell’amnesia caduto sull’epoca coloniale della storia nazionale, che ne rende sconosciuti gli avvenimenti, le cifre, i nomi dei protagonisti. Dall’altro lato l’opacità è quella rivendicata come diritto di ogni individuo dal poeta e saggista Édouard Glissant (Sainte-Marie, Martinica, 1928 – Parigi, Francia, 2011), i cui scritti sono stati fondamentali per lo sviluppo del pensiero post-coloniale e de-coloniale. Nel 1959 Glissant aveva partecipato al 2º Congresso Mondiale degli Scrittori e Artisti Neri 1 organizzato presso l’Istituto Italiano per l’Africa di Roma, ovvero l’ente a cui nel 1956, in seguito alla soppressione del Ministero per l’Africa Italiana, furono affidate le collezioni del Museo Coloniale di Roma. L’opacità, per Glissant, è il diritto, valido per tutte/i noi, di non assoggettare la propria identità alla comprensione degli altri, alla trasparenza che classifica in modo unilaterale, all’accettazione che riduce alle categorie già esistenti. Nel gesto di “comprendere”, ricorda Glissant, c’è infatti il “movimento delle mani che prendono ciò che le circonda e lo riportano a sé”: quindi un “gesto di chiusura, se non di appropriazione”, al quale l’autore contrappone quello del “condividere”, che conduce invece ad accettare l’impossibilità di ridurre l’altro ad una verità che questi non abbia generato e proposto da sé, autonomamente.

Ed è proprio con questo scenario di condivisione e potenzialità rigenerativa che queste collezioni ci mettono a confronto, accogliendo la complessità e criticità di una loro possibile e necessaria ri-contestualizzazione. Un processo che si può avviare, per esempio, attivando un dialogo tra le collezioni dell’ex Museo Coloniale e alcuni documenti e opere d’arte contemporanea che originano dalla ricerca intorno a tutte quelle storie che, in passato, non hanno trovato posto negli allestimenti e nelle narrazioni museali. Da qui emerge l’ipotetico Museo delle Opacità che, tentando di dare forma a queste omissioni, utilizza anche le fotografie degli allestimenti originali come “testimonianza antropologica”2, ovvero come memoria critica della contestualizzazione politica e sociale originale. Un gesto che evidenzia innanzitutto i rapporti tra gli oggetti esposti e i dispositivi linguistici e allestitivi che ne sostenevano l’interpretazione. E sullo sfondo di questi fantasmi – che riemergono come apparizioni dal passato ma anche come tracce della sua persistenza nel presente – le opere, sia storiche che contemporanee, rivendicano nuove modalità di documentare, ricercare e condividere la storia coloniale. In questo contesto le addizioni contemporanee – che comprendono anche nuove produzioni realizzate tramite processi di residenza artistica all’interno del Museo – propongono, in particolare, la possibilità immaginifica di rinegoziare i termini stessi di quella storia, proiettandola dal passato al futuro e restituendo la parola alle tante soggettività a suo tempo escluse dalla narrazione museale, o rese alterità utili solo a definire una contrapposizione invece che un dialogo.
L’opacità è, quindi, un approccio possibile non solo per riscrivere la storia dell’ex Museo Coloniale di Roma, investigandone i meccanismi che lo hanno generato in passato, ma per sprigionare la forza propulsiva delle sue nuove narrazioni che potranno contribuire, di fatto, a che non esistano in futuro nuovi Musei Coloniali ma spazi e tempi di compartecipazione e confronto, e quindi di condivisione, sulla storia coloniale italiana.

Collocata nell’Ingresso, l’opera የካቲት ፲፪ – Yekatit 12 di Jermay Michael Gabriel apre il percorso del Museo delle Opacità, creando un cortocircuito sia visivo che storico con il prospicente scalone monumentale del Palazzo delle Scienze. Progettato insieme all’edificio quale espressione del modernismo razionalista che rielabora, manipolandoli, una serie di riferimenti alla romanità classica, lo scalone incontra quindi un’altra scala, che in questo caso è una copia fedele di quella costruita ad Addis Abeba durante il periodo coloniale per inserire l’occupazione dell’Etiopia nella storia coloniale dell’epoca fascista (ogni gradino corrisponde a un anno).